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Roger Cohen, illustre editorialista del New York Times, il 13 luglio 2018 scrive un articolo per suggerire ai suoi colleghi giornalisti di abbandonare l'utilizzo del termine “populista”. Lo suggerisce anche a se stesso, visto che in passato ne ha fatto uso abbondante e a volte arrabbiato, per non dire rabbioso.

Sottostiamo tutti alla necessità di dare una definizione agli eventi dei quali siamo testimoni e di cui scriviamo, anche per interpretarli. È un limite: esiste soltanto una quantità finita di parole per descrivere la realtà.

Con il consueto acume, Cohen scrive: “Nessuno ha mai fatto cambiare idea a qualcuno facendolo sentire un imbecille”.

Meglio quindi prediligere la descrizione alla definizione.

Suggerisce Cohen: dovremmo uscire dalle redazioni per incontrare chi ha votato Trump. Nell'articolo illustra una parziale (eppure significativa) quantità di motivazioni raccolte sul terreno.

Non depongono a favore di Trump (e di tanti piccoli Trump che in giro per il mondo lo stanno imitando), ma servono a spiegare, più che la sua presenza alla Casa Bianca (il sistema elettorale gli ha dato una mano), il linguaggio che il presidente utilizza giornalmente, su Twitter e ogni volta che gli capita di aprire bocca.

Suscita più di un interrogativo, tuttavia, la coincidenza dell'articolo di Roger Cohen: è apparso sette giorni prima che il suo editore, A. G. Sulzberger, incontrasse Donald Trump, su invito di quest'ultimo.

Sulzberger ha fatto notare al presidente, con infinite ragioni, che attaccare la stampa significa attaccare la democrazia, di cui la stampa libera (libera sempre fino a un certo punto) è una manifestazione e un pilastro.

L'articolo di Cohen non è bastato a tenere a freno la Sindrome da Twitter di Donald Trump. Il quale, dopo una breve astinenza, si è precipitato a fare a pezzi l'atmosfera che si era creata (stando al rendiconto di A. G. Sulzberger) in occasione dell'incontro con lo stesso editore del New York Times.

Vedere se Roger Cohen si atterrà all'auspicio.