Il colpo in canna

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Ricapitoliamo.

Lo scorso autunno l'industria svizzera degli armamenti scrive una lettera alla Commissione della politica di sicurezza del Consiglio degli Stati: dobbiamo potere esportare di più, se continuiamo così sono a rischio la nostra competitività a livello mondiale e posti di lavoro.

(Per capire quanta nebbia e ambiguità circondi l'industria bellica elvetica, leggete questo articolo della NZZ). 

Torniamo al nostro argomento: la richiesta della "Waffenindustrie" giunge via Consiglio degli Stati al Consiglio federale che decide di “prendere sul serio” (nelle parole scritte dal Dipartimento dell'economia) le preoccupazioni del settore.

Il Governo decide così di ammorbidire l'Ordinanza sull'esportazione di materiale bellico fino a includere, fra i futuri clienti elvetici, paesi in guerra, anche intestina (in altre parole: civile), a condizione che tali armi o munizioni “non vengano utilizzate per la guerra in corso”.

Se non credete a queste parole, sono scritte qui.

Senza farla tanto lunga, le Commissioni della politica di sicurezza del Consiglio nazionale e degli Stati decidono di assecondare (con qualche voce contraria e astensione) il parere favorevole del Consiglio federale.

La decisione proposta dal Consiglio federale include altre modifiche: l'autorizzazione a esportare materiale da guerra sarà valida due anni, invece dell'anno attualmente in vigore e potrà essere, nei singoli casi, prolungata di un anno invece dei sei mesi attuali.

Lunedì 3 settembre scorso, il Controllo federale delle finanze spiega, in un documento disponibile su internet, come in molti casi verificati le armi vendute al destinatario originale non si siano più trovate a casa sua, ma da un'altra parte. Chissà quale. E chissà perché. Basterebbe citare questa frase, ma il documento è una lettura istruttiva:

La «rete di controlli della Confederazione» per le esportazioni di materiale bellico è troppo diradata e insufficientemente coordinata.

Il SonntagsBlick, nella sua edizione di oggi, ci aiuta a capire dove finiscono o possono finire gli armamenti venduti all'estero. Dopo la Siria, un altro paese: la Libia, ripiombata in una guerra intestina e dove sono in circolazione sul mercato nero granate a mano della Ruag (ditta che appartiene al Governo svizzero) e lanciagranate originali o prodotti con licenza della ditta di Thun Brügger & Thomet AG.

Domani, la Sinistra, gruppi vicini alla Chiesa ed esponenti dei partiti borghesi presenteranno alla stampa un'iniziativa per contrastare la posizione del Consiglio federale.

Non risolverà, comunque vada, il problema di fondo. Perché armi, munizioni e sistemi bellici finiscono sempre dove servono: in guerra.

Aggiornamento: l'iniziativa contro l'esportazione di armi nei paesi in guerra civile è stata consegnata oggi alla Cancelleria federale. 

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