Le emozioni, l'esperienza

© 2019 FdR

Provo due reazioni nei confronti della guerra in corso nel nord della Siria fra Turchia e Curdi.

La prima reazione: è di una devastante tristezza (stanchezza, anche) nel constatare come la guerra sia facile e come, con qualche scarsa astuzia di comunicazione politica, essa riesca ad abitarci con un senso che assume le sfumature della necessità e dell'inevitabilità. Ciò riguarda chi la sostiene, ma anche chi la affronta nel vedersela cadere addosso e, credo anche, nel non averla vista (o non avere voluto vederla) arrivare.

Chi la ripudia e ne chiede la fine subito, invece, è costretto a ricorrere ai tempi lenti (e quasi sempre inefficaci) della protesta oppure a quelli, anch'essi lenti e sempre in ritardo sul disastro, della diplomazia.

Rimane, forse, quale alternativa riflessione, questa: per evitare una guerra serve il coraggio di essere pronti a farla o perlomeno il coraggio di manifestare tale determinazione. Quest'ultimo pensiero non fa che rendere più dolorosa la consapevolezza della facilità (o pensabilità) della guerra e ci interroga sull'applicabilità (semmai ne esista una) del criterio di guerra giusta, declinato in tempi recenti con aggettivi diversi, non da ultimo quello di guerra umanitaria.

Siamo alla seconda reazione: è una reazione basata sui fatti, non sulle emozioni, nemmeno sull'esperienza delle emozioni. Andiamo per punti.

Punto 1: il disimpegno militare (viene usata anche la parola: tradimento, ma è connotata, e quindi in questo secondo ordine di riflessioni la tralascerei) degli Stati Uniti in Medio Oriente, Siria inclusa, è una prospettiva annunciata anni fa. Alla Casa Bianca sedeva ancora il presidente Obama. Aveva lanciato sull'arena internazionale l'idea della linea rossa, per annunciare che, dopo i primi, ulteriori attacchi chimici per opera del regime del presidente siriano Assad gli Usa avrebbero innescato una reazione militare. Stiamo ancora attendendo. La reticenza è stata probabilmente nutrita dalla confusione sul terreno, dai sospetti di utilizzo di agenti chimici da parte degli “insorti” contro aree controllate da truppe governative e più in generlae da un clima di acuto disorientamento alimentato, in misura non trascurabile, dalla commissione di inchiesta dell'ONU incaricata di fare luce sui fatti. Obama sembrava essersi arreso alla percezione (e quindi avere agito in conseguenza della stessa) secondo la quale il Medio Oriente - semplifichiamo - è un casino indistricabile.

Punto 2: lo Stato islamico. Obama aveva deciso di concentrarsi sulla sua sconfitta militare. Dopo non facili ricerche, la scelta sull'alleato da sposare è caduta sui curdi, quelli del Kurdistan iracheno e quelli di Siria, con una spruzzatina di combattenti arabi in Siria (in mancanza di alternative). La vittoria (la liberazione delle città controllate dal Califfato) è stata siglata sotto la presidenza Trump.

Punto 2 A: in Siria, la presenza di unità militari curde in zone arabe avrebbe potuto creare risentimento nella popolazione locale, sebbene essa fosse stata liberata dall'oppressione dello Stato islamico (non tutti si sono sentiti liberati, per quanto possa sembrare incomprensibile e dal nostro punto di vista lo sia). È un elemento sollevato da alcuni osservatori e commentatori con largo anticipo, mai tuttavia affrontato sul piano politico internazionale. La stessa presenza di truppe curde lungo il confine turco costituiva un elemento critico, tanto è vero che gli Stati Uniti erano riusciti a vendere ad Ankara, quale soluzione di garanzia, pattuglie miste con soldati Usa. Il ritiro delle truppe americane ordinato da Trump ha sconvolto le carte sul tavolo. Ipotizzabile che la soluzione non piacesse comunque ai turchi se proiettata sul lungo periodo.

Punto 3: nella sua lunatica imprevedibilità (ci starebbe una fila di altri aggettivi, ma andiamo corti), il Presidente Trump ha a più riprese segnalato il suo disinteresse nei confronti della Siria, in particolare delle zone occupate dalle forze curde (dalla coalizione a maggioranza curda delle Forze Democratiche Siriane).

Punto 4: agli europei la liberazione di Raqqa (Siria), Mosul (Iraq) e simili non ha mai importato molto, per non dire punto. A importare erano i campi di prigionia in mano curda con dentro i combattenti dello Stato islamico (europei inclusi) e le loro famiglie. La presenza di tali campi ha permesso agli europei di tergiversare sul destino di questi prigionieri e su dove dovrebbero essere giudicati, condannati e messi dietro le sbarre. Il piano era (e resta) l'Iraq. È dell'ultima ora la notizia della fuga di 800 di essi da un centro di detenzione. I curdi, pur non esercitando alcuna forma di ricatto nei confronti dell'Europa, hanno fatto sapere di volersi concentrare sulla resistenza nei confronti dell'avanzata turca.

Punto 4 A: L'invio di qualche paracadutista francese, britannico, tedesco (e perché no anche di uno svizzero) garantirebbe la tenuta dei campi di detenzione. Significherebbe però farsi carico a tu per tu della patata bollente: esporsi alla possibile esondazione della guerra in corso e affrontare la gestione dei prigionieri. Le prossime ore saranno decisive. In alcuni campi, sparsi sul territorio, sono raccolti anche bambini orfani, alcuni molto piccoli: non hanno scelto di recarsi nell'ex Stato islamico o di nascerci. I problemi che chiedono risposte inedite e difficili non sono pochi.

Punto 5: l'avanzata turca avviene per via aerea e terrestre (bombardamenti) e attraverso l'utilizzo di una formazione militare chiamata Esercito Nazionale Siriano, composta dai sopravvissuti dell'Esercito libero siriano della prima ora (sono in guerra da otto anni) e da altri elementi. Il loro comportamento sul terreno è documentato da alcuni video trovabili su Youtube e Twitter. A un'unità di questa formazione viene imputato l'assassinio di Hevrin Khalaf, giovane segretaria generale del Future Party curdo. La donna è stata uccisa sul ciglio di una strada insieme al suo autista. Altre sette persone, stando alle informazioni disponibili, avrebbero subito la stessa sorte.

Punto 6: la presenza di questa soldataglia e l'invisibilità dei soldati turchi lascia pensare a un'operazione di pulizia etnica in profondità e di diffusione del terrore quale arma di guerra attraverso i social media. Nulla di nuovo: lo Stato islamico ci aveva abituati a questo scenario. Non siamo, probabilmente, molto lontani dalla stessa affiliazione. Sono rintracciabili online altri video dei guerriglieri appartenenti all'Esercito nazionale siriano filoturco in azione. La Turchia ha annunciato di volere insediare nella zona tampone in fase di creazione lungo il confine siriano una parte importante dei profughi (arabi di religione sunnita, non è un dettaglio) che attualmente si trovano nel Paese della mezzaluna.

Punto 7: è interessante osservare le emittenti televisive all news turche, anche non capendo una parola (alcune si intuiscono). Questa è la guerra contro il terrorismo della Turchia: ciò ricorda (restando alle formule e alla loro traduzione in grafica televisiva) quanto abbiamo visto in anni non lontanissimi sulle televisioni occidentali.

Punto 8: la Turchia è un paese NATO. Quest'ultima ha finora reagito raccomandandosi presso Ankara di “non esagerare”. Alcuni Paesi dell'UE hanno annunciato di avere sospeso la fornitura di armi alla Turchia che potrebbero essere impiegate in Siria. La Turchia, tuttavia, non è a corto di armamenti per questa campagna militare.

Punto 9: la guerra in Siria sta conoscendo un nuovo capitolo. E così pure la partizione del Paese.

Punto 10 e fine: non suoni allarmistico o esagerato definirla neopartizione del Medio Oriente. Israele, semmai dovesse presagire in casa propria lo spettro della capricciosità degli Stati Uniti e del loro presidente, potrebbe rivendicare (rivendicherà) la stessa zona tampone nei confronti della Siria (Golan) e, a cascata, del sud del Libano e, a cascata ancora, della Striscia di Gaza.

(g.g.)