Al museo
vacci tu

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Un museo è una soffitta piena di cose alle quali confidiamo l'incarico di scrivere la nostra vita.

Come se quelle cose ammassate e (quando va bene) catalogate per davvero sapessero chi siamo: siamo diventati. Cosa stiamo facendo. Cosa ancora vogliamo fare. Cosa siamo capaci di fare. Non lo sanno.

Come se davvero sapessero raccontarci: non sanno raccontarci. Rendere conto delle nostre azioni: non ne rendono conto. Farci capire cosa facciamo: non lo fanno capire.

I musei non sanno nulla di noi. Sanno soltanto di muffa.

Nel Museo Nazionale di Rio de Janerio c'era Luzia: il più antico fossile umano, stando alle cronache. Aveva 12mila anni.

E allora?

Non è dato sapere in che stato si trovi, dopo il rogo, ma è umanamente condivisibile questa conclusione: era tempo che se ne andasse. Va bene anche: che se ne andasse in fumo.

I musei nazionali costituiscono una contraddizione con la nostra conta del tempo. Ci esponiamo all'immensità temporale custodita nei musei la domenica, quando piove e non sappiamo cosa fare, quando siamo in vacanza e sentiamo l'urgenza (senza potere opporre la resistenza di una ben più fondata alternativa) di doverci andare, quando teniamo famiglia e ci sono i figli da occupare.

I musei nazionali sono un'esperienza antidemocratica. Ci assoggettano al peso del tempo ufficiale, in altre parole: governativo. Una mummia di oltre diecimila anni conta perché ci convincono che conti.

Usciamo da queste prigioni convinti che il nostro tempo non serva a nulla. Ne usciamo piagnucolosi. Di più ancora: quando bruciano. Li guardiamo piangendo. 

I musei non costituiscono un'esperienza sana. Lo sarebbe invece una che ci spingesse a credere che il nostro tempo è dotato di energia e di forza.

Ci sentiremmo così autorizzati a cambiare qualcosa.

(g.g.)