In virus veritas

© 2020 FdR (R. C.)

Quando il dottor Li Wenliang, per primo, lanciò l'allarme su un nuovo virus in circolazione, la polizia cinese bussò alla sua porta e gli disse di stare buono. Da noi, a uno così non bussano alla porta: danno dell'imbecille e basta.

La morte, per Coronavirus, di questo dottorino ha innescato qualcosa di mai visto in Cina: una rabbia che esplode sulla rete, nei social. Il Governo cancella i post più critici e aggressivi, ma qualcun altro li ha già rimbalzati o anzi gli autori li hanno riscritti.

Servono eroi per fare la rivoluzione. Servono i morti. Ovunque (i cinesi del recente passato analogico ne sanno qualcosa).

Ci eravamo assuefatti all'idea di una Cina e di un popolo assogettati al potere, all'ordine, alla schedatura generalizzata, al riconoscimento facciale ovunque.

Forse ci siamo sbagliati.

Forse stiamo assistendo a una novità: a una rabbia popolare che, lontana dalle piazze, sceglie quella più grande per dare contro ai burocrati e al potere: la rete, portatrice della protesta contro la menzogna e l'intimidazione verso chi non accetta di esserne schiavo.

È presto per dirlo.

Non è troppo presto, invece, per farci una pensata, anche alle nostre latitudini.

Chiedere che venga detta la verità su un virus potrebbe diventare una metafora, oltre che un problema sanitario globale.

Una duplice metafora:

1. l'essere umano dà il meglio di sé quando è confrontato con la paura, che non fa differenza fra ricchi e poveri, buoni e cattivi, belli e brutti, giovani e vecchi;

2. l'essere umano si inventa un sacco di bugie per tirare a campare, ma non sopporta che chi campa sulla sua pelle non gli racconti la verità.

(g.g.)