Blabla e la realtà

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Leggere con attenzione il piano di pace al quale il presidente Usa (e getta) Donald Trump affida l'ambizione di risolvere il conflitto israelo-palestinese.

Ci permette di capire molte cose, aldilà delle critiche (scontate) e dell'entusiasmo (scontato pure).

1. Questo conflitto non interessa più a nessuno.

Soltanto in un clima così poteva vedere la luce un piano di pace così. Non è un caso che ad averlo pensato sia stato Jared Kushner, genero del presidente Trump e suo consigliere speciale in materia di Medio Oriente. Una delegazione della monarchia saudita, che lo aveva incontrato a Washington nel 2016, aveva definito «scarse» le sue conoscenze della regione.

Avanti tutti.

Oggi, non risulta difficile crederlo.

2. Il piano di pace Trump non fa che registrare la situazione sul terreno. Vale a dire il fatto che una pace israelo-palestinese basata sul diritto internazionale e sulla giustizia imparziale e applicata in parti uguali è impossibile. Basterebbe viaggiare con gli occhi aperti in quelle terre per constatarlo.

3. La situazione odierna è figlia degli accordi di Oslo (1993 e 1995): avrebbero dovuto portare alla pace definitiva due popoli, sono invece stati non soltanto complici, ma altresì parte attiva nel disastro.

Gli Accordi di Oslo prevedevano un progressivo passaggio all'autonomia dei Territori palestinesi (Cisgiordania e Striscia di Gaza), suddivisi in tre aree: A (sotto controllo palestinese), B (a controllo misto israelo-palestinese) e C (sotto il controllo israeliano). Ciò ha creato il tempo e lo spazio necessari alla rampante colonizzazione israeliana della Cisgiordania e ha fornito all'Autorità palestinese l'alibi dietro il quale celare (e dissimulare) corruzione, inazione, disorganizzazione, faide politiche e una mai sanata incapacità di scegliere fra la resistenza armata (e gli attentati) e una militanza alternativa.

4. Oggi, la classe politica palestinese è lontanissima dalla popolazione e dalle sue aspirazioni. Vive su un pianeta diverso.

La classe politica israeliana è da parte sua incapace di produrre una visione politica rigeneratrice: è prigioniera di un disegno etno-ideologico e strategico autoreferenziale.

Non che in passato, quando nella politica e nella società israeliane la speranza circolava con un certo vigore le cose stessero diversamente. Un po' sì, però.

Anche sul versante palestinese.

Al punto da venire, questa speranza, non soltanto assecondata, ma utilizzata da avventurosi (e inutili) esercizi di pseudopacificazione quali, ad esempio, gli Accordi di Ginevra promossi dalla Confederazione e dall'allora ministra degli esteri Micheline Calmy-Rey.

C'è un nesso di diretta responsabilità fra il disastro odierno e gli esperimenti mediorientali realizzati qualche anno fa da non pochi alchimisti insediati in disparate cancellerie.

In conclusione: il piano di pace di Trump merita di essere letto con attenzione. Registra fedelmente la situazione nella quale versano due popoli, quello israeliano e quello palestinese. Immaginare che le cose possano stare diversamente, è peccare di troppa immaginazione.

Per una volta non ci dobbiamo schierare dalla parte degli idealismi e degli auspici, degli esercizi di stile. Dei blabla.

Possiamo metterci contro il piano Trump, consapevoli tuttavia di metterci contro la realtà e le sembianze che essa ha preso sul terreno.

(g.g.)