Chi si rivede: la guerra

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Qualsiasi notizia letta, oppure guardata o ascoltata che oggi vi ha raccontato l'attacco militare statunitense costato la vita in Iraq al generale iraniano Qassem Suleimani (fra gli altri) affonda le sue radici nell'Iliade.

Che è il primo dispaccio di guerra, la prima narrazione giornalistica di un conflitto. Se i conti tornano, Omero la scrisse 2770 anni fa.

È cambiato qualcosa?

No.

Certo, abbiamo inventato i diritti umani, il concetto di crimini di guerra, l'ipotesi della loro perseguibilità (sempre parziale).

Paraventi dell'ipocrisia.

Al limitare degli anni Dieci di questo secolo ci siamo addirittura stancati della guerra, ce ne siamo disinteressati, preferendo scendere in piazza per chiedere che si faccia qualcosa per salvare il Pianeta dal disastro climatico. Non per fermare le bombe, da qualsiasi parte esse piovano.

È comprensibile.

Ma è anche una terrificante distrazione.

Per qualche giorno del nuovo anno ci siamo appassionati alla farsa di un ometto fuggito dal Giappone in Libano dentro la custodia di un contrabbasso. Ci era sembrato il regalo del 2020, capace, non fosse altro che per la superficiale fascinazione numerica, di farci sperare in meglio: magari nella commedia.

Oggi, la guerra ha rimesso fuori la testa. È una cosa seria. La ricerca dei torti e delle ragioni è un esercizio elegante del pensiero, ma non corrisponde alla realtà, non in questo caso.

L'abbiamo vista arrivare, tenendoci un po' informati. Cosa abbiamo fatto? Zero.

Ancora non vogliamo chiamarla guerra, preferiamo dire che potrebbe esplodere, un giorno o l'altro.

Quasi fosse una cosa nuova, sconosciuta. E comunque sempre una cosa lontana, che riguarda gli altri. Noi: mai.

Ne scriviamo domani, sabato 4 gennaio, nel Senso del Taccuino.

(g.g.)