Liberi, sì?

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Si stanno manifestando inquietudini tardive sulle ripercussioni della gestione politico-sanitaria (vanno a braccetto) di Covid-19. Ripercussioni su che cosa? Su quella cosa che chiamiamo libertà individuale.

Era chiaro da subito dove stavamo andando: in tutto il mondo ci hanno nutriti con i grassi saturi dello state a casa, accompagnati dal ketchup dilettantesco del distanti ma vicini. Il contorno di assai modesta fattura è stato aggiunto dagli articoli di giornale e dalle trasmissioni radio-tv ancora in corso di terrificante diffusione, localmente da alcuni manifesti pubblicitari in mascherina sanitaria e soprattutto in bilico fra lo smarrimento autocelebratorio dell'attore protagonista alle prime armi e la gaffe.

Non è ciò che ci è stato (e ci viene) chiesto di fare: è (stata) l'incapacità di chiedercelo corrispondendo a una intelligenza collettiva che ignorare è dileggio.

Ora: piuttosto che interrogarsi, come alcuni fanno, su quale fetta di libertà compromettano le misure messe in campo per contrastare l'epidemia Covid-19, è interessante chiedersi: che cosa è la libertà per ciascuno di noi? Che cosa ci fa sentire liberi? Di quale grado della libertà ci accontentiamo per sentirci, ogni giorno, liberi?

Il referendum appena lanciato contro la legge relativa all'applicazione di tracciamento SwissCovid è un atto dovuto: rivendica i principi della democrazia sui tempi elettrici dell'emergenza.

Tuttavia: dà per scontata un'esperienza della libertà che va sì difesa, ma che con quasi assoluta probabilità non è quella che compiamo vivendo. L'assenza di una descrizione (o di una fotografia) di ciò che ci fa sentire liberi rende zoppi il referendum e altre riflessioni che, seppure in ordine sparso e spesso incoerente, stanno prendendo forma.

È cioè indispensabile capire ciò che ci permette di sentirci liberi non tanto per accordare su questa nota le ambizioni delle nostre rivendicazioni, per concludere, cioè, a quanta libertà possiamo ambire o per quanta libertà ci possiamo battere.

È indispensabile distillare la lettura del nostro desiderio di libertà per innanzitutto concludere quanta poca ce ne basti per definirci liberi.

Così, la crisi Covid-19 ci offre una straordinaria occasione per un ripensamento del nostro essere al mondo.

Se vogliamo davvero impegnarci contro le derive pesudoautocratiche (molto più spesso: politico-sanitario-burocratiche) della realtà Covid-19, va rivoluzionato l'assunto generalmente condiviso secondo il quale la nostra libertà finisce quando inizia quella degli altri.

Non è un paradosso: è la sola forma di resistenza possibile.

La libertà ha un senso quando si trasforma in un elemento invasivo, in energia di disturbo intellettuale: del pensiero, del discorso, della parola. Di ciò che scriviamo.

Pensare la libertà non può arrestarsi di fronte alla necessaria e inevitabile invadenza che tale pensiero ha nei confronti della vita degli altri. Inizia, invece, proprio lì: nell'istante dell'invasione.

È probabilmente opportuno concederci la dolorosa ammissione di quanta poca (sempre meno) libertà ci faccia sentire liberi per innescare un radicale ripensamento della scala di riferimento.

È comprensibile e anzi auspicabile l'atteggiamento di chi chiede garanzie di Stato e costituzionali per la nostra libertà.

È però come andare contro i mulini a vento nel momento in cui esso smemora quel poco che basta per farci sentire liberi, come ci sentiamo oggi, sempre e ancora.

È quindi controproducente appellarsi ai valori universali.

La constatazione di quanto poco universali e assoluti essi siano alla luce della relativizzazione alla quale la nostra esistenza li costringe (nell'accettazione di tale processo) invoca una partenza resistenziale diversa.

La difesa della libertà (individuale e di tutti) non può che partire da questa constatazione, non dal suo contrario.

Dalla constatazione, cioè, che ci basta poco per sentirci liberi.

E che questo non basta per esserlo davvero.

(g. g.)

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