Un rifugio extrauterino

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Dalla vita riassunta come success story del nostro sistema immunitario, alla fantasia del locus amoenus suggerita (imposta) dal lockdown, al bunker extrauterino chiamato casa al quale ci siamo consegnati che sembra passata un'eternità. Per continuare a capire quello che facciamo con Covid-19.

Siamo terrificantemente a corto di risposte, di fronte a Covid-19.

Le risposte (in particolare la loro disponibilità) dipendono dalle domande che (ci) poniamo.

Per la prima volta nella storia dell'umanità siamo confrontati con una minaccia non soltanto individualmente percepita, ma anche individualmente raccontata e disseminata, trasformata in narrazione collettiva, aldilà di ogni immaginabile confine: abbiamo la possibilità di scrivere e di dire ciò che pensiamo nel nostro dovere fare i conti con tale minaccia. Anche con ciò che ci accade.

È interessante notare come, quasi sempre, l'urgenza alla quale affidiamo la motivazione del nostro discorso confessi una umanissima confusione, che tuttavia rivendica per sé l'autorità della sola versione che stia in piedi (è inevitabile, essendo la sonda alla quale affidiamo l'auspicio di un riorientamento in terra incognita zavorrata a un presente assoluto che nega la Storia, cioè l'esperienza o perlomeno il racconto del Passato, vale a dire di ciò che è già successo ad altri).

Mai come nel corso dell'esperienza che stiamo compiendo tutti quanti insieme abbiamo considerato auspicabile l'adesione all'assunto della medicina moderna, secondo il quale la vita è (o sarebbe) da considerare (da prendere, dai) come una storia di successo (Erfolgsphase) del nostro sistema immunitario (Peter Sloterdijk).

Il cedimento del sistema immunitario verrebbe così a costituire l'ostacolo invalicabile posto fra la vita e la sua definibilità in senso positivo, addirittura propositivo.

Il timore di ammalarsi e tutto ciò a cui ricorriamo per evitare di ammalarci o che si ammali qualcuno dei nostri cari è da interpretare anche in questa ottica: nessuno ha voglia di conoscere da vicino il fallimento del sistema immunitario, proprio o familiarmente altrui, percependo, sebbene anche in modo molto vago, che ciò verrebbe interpretato da tutti come un insuccesso.

Nella impossibilità di imputarlo alla cattiva sorte, resterebbe soltanto a galleggiare a mezz'aria il rimprovero per l'esposizione di uno o di una alla vita, o alla realtà.

Che cosa è stato il lockdown, su scala mondiale, se non il tentativo di preservarci dall'esperienza di ciò che non soltanto individualmente, ma ormai senza argini e collettivamente è considerato un passo falso, un atto ostile nei confronti della vita secondo la definizione indicata sopra?

Il lockdown (portando avanti riflessioni affidate a questo libro) è stato il tentativo di conservare una lettura della (nostra) esistenza e, in modo più sottile, dell'esistenza legata alla sinonimia che la vincola (vincolerebbe) a una molto vaga idea di successo, appellandosi al principio secondo il quale merita la definizione di vita soltanto quell'attraversamento del mondo sostenuto da un sistema immunitario efficiente.

Per preservare quest'ultimo da ciò che, pur meritando a pari titolo la definizione di vita, ne rappresenta e incarna in maniera eversiva l'imprevedibilità si è fatto ricorso al lockdown.

Aldilà del fatto se sia servito o meno e scordandoci, in questa occasione, le parole e le azioni (in tutto il mondo) alle quali si è ricorso per trasformare il lockdown in realtà, resta l'esperienza consapevole (e di nuovo individuale e obbligatoriamente collettiva) di ciò che abbiamo provato stando a casa.

È stata l'esperienza di un locus amoenus al quale abbiamo affidato la finzione della possibilità di vivere senza doverci confrontare con la vita.

Anzi: abbiamo non soltanto accolto, ma altresì coltivato e disseminato (in particolare via social) l'evocazione (in fondo radicalmente, per non dire violentemente nostalgica) di un rifugio extrauterino (Peter Sloterdijk) capace di proteggerci da ciò che la vita ci fa quando siamo irrimediabilmente (dolorosamente, ci starebbe) usciti da quello vero, poi credendo che tale rifugio, che questo utero immaginario possa davvero esistere oltre la sua immaginabilità.

E ci siamo accomodati.

(g. g.)