Anche i buoni c'entrano

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Devastato dalle fiamme, il campo profughi di Moria, sull'isola greca di Lesbo, è una tela dolorosa sulla quale è opportuno proiettare qualche pensiero razionale, inevitabilmente controcorrente.

Il rogo costituisce il fallimento di una politica dell'asilo europea in senso comunitario. È il prodotto di una Willkommenskultur durata poco e sin dall'inizio (2015) apparsa artificiale e dal fiato corto.

È stato il terreno sul quale si è anche giocata una guerra (non soltanto dei nervi) iniziata dalla Turchia nei confronti dell'Europa, sulla pelle della povera gente.

Ha dimostrato che la guerra (quella vera) produce vittime che restano vive e che non hanno alcuna intenzione di continuare a essere vittime.

Moria mette però davanti a tutti noi anche il fallimento dell'approccio umanitario freelance che l'isola di Lesbo, più di altre, ha fino a due giorni fa stimolato.

Innumerevoli persone hanno trascorso le loro vacanze (scolastiche o lavorative) a Moria per “assistere” gli abitanti. Nella maggior parte dei casi si è trattato di soggiorni destinati a far divertire i bambini, portandoli a disegnare cuori e apprendendo loro a scrivere la parola pace in inglese: peace.

Nemmeno fossero giunti lì capaci di scrivere soltano la parola guerra: war.

Ciò non esclude programmi di maggiore serietà, ma non basta nemmeno a concludere che il campo profughi non sia stato l'elemento accentratore di un altruismo part time: questione di andarci e di tornare a casa dicendo io c'ero.

In questo senso, è ipotizzabile che l'assistenza ai migranti fornita da organizzazioni non governative che hanno fatto capo a volontari abbia in misura considerevole contribuito alla procrastinazione dello status quo (è una questione aperta anche in altre aree di crisi umanitaria del mondo).

La possibilità che siano stati gli abitanti del campo ad avere dato alle fiamme la struttura è quindi leggibile come una rivolta anche nei confronti di chi, agendo fondamentalmente a fin di bene, ha tuttavia assecondato la continuazione dell'insostenibile.

Il fatto che si constati che bande di indigeni isolani (con il rinforzo di altri greci provenienti dalla terraferma) attacchino i migranti ormai fuori dal campo e in particolare impediscano ai giornalisti di fare il loro lavoro non deve portarci a tacere che gli stessi volontari dell'umanitario hanno compiuto azioni ostruttive e di sabotaggio fisico nei confronti dei reporter presenti a Lesbo.

Testimonio personalmente di episodi nel corso dei quali volontari provenienti dall'estero e presenti sull'isola hanno cercato di impedire in ogni modo (aggressivamente) che documentassi in immagine l'arrivo dei migranti / profughi sulle coste di Lesbo (a partire dal mese di ottobre 2015).

Ho avuto l'impressione che questi volontari (poi cresciuti in numero nel corso del tempo, includendo una disparità di biografie, anagrafi e caratteri) pensassero che i migranti fossero cosa loro. Una loro proprietà, sulla quale proiettare ciò che li aveva spinti da paesi lontani dell'Europa a compiere il viaggio fino a lì.

L'incendio del campo profughi di Moria (che senza prove, ma ritenendo personalmente di non sbagliare) tendo a credere che sia stato intenzionale, è un atto di ribellione nei confronti di chi ha tollerato che in cinque anni crescesse a Lesbo una piccola città terrificante.

Dentro questo chi ci sono tutti.

(g. g.)