L'umiltà, la guerra

© 2022 FdR / Resy Canonica

Ci sarebbe da ridere, se non fosse una tragedia (la tragedia ha, però, una sorella ribelle, sempre) nel constatare come chi, che fino a ieri era preso da un attacco di orticaria al solo sentire le parole Stati Uniti, Occidente e NATO, oggi partirebbe invece per l'Ucraina imbracciando il moschetto. Se soltanto non fosse incollato alla sedia del suo ufficio. La guerra ci chiede l'umiltà, invece.

La guerra è una finestra spalancata su quelli che siamo. E su ciò di cui siamo capaci. Una volta ne sono capaci questi, un'altra quelli, un'altra ancora noi. Se esiste una manifestazione del nostro stare al mondo che sappia renderci tutti uguali, è la guerra. Siamo capaci di farla tutti. A volte soltanto di invocarla, affinché la facciano altri al nostro posto, ma insomma poco cambia. È questa la trappola della guerra: essa giunge a farci credere che non esista più alcuna alternativa, più alcuna realtà al di fuori di lei. Lo dico e lo scrivo da anni. Oggi, trovo l'ennesima e dolorosa conferma di avere colto nel segno.

Di fronte alle immagini (che però non sono molte, pensando a tutto ciò che ci sarebbe da mostrare) che ci giungono dall'Ucraina leggiamo i giornali, ascoltiamo la radio, guardiamo i telegiornali, navighiamo su internet. Abbiamo l'impressione che la guerra accada per la prima volta e che, per la prima volta, ci venga raccontata.

Non è così, evidentemente. Si tratta soltanto di uno smemoramento, non so quanto genuino o indotto dalle ragioni (andranno esplorate) che hanno portato chi, delle guerre viste in prima persona o soltanto da dietro uno schermo (soprattutto da dietro uno schermo), ha sempre fulmineamente e senza alcun dubbio individuato responsabilità, combinazioni, contestualizzazioni e, insomma, tutta la grande famiglia dei punti di vista indispensabili per produrre una perlomeno approssimativa comprensione del reale e delle nostre azioni.

Oggi è sparito tutto. Salto di campo.

A farci detestare le guerre (lunghe o brevi che siano) non è soltanto l'iconografa di ciò che esse (che gli esseri umani che le combattono) producono: è, piuttosto, la certezza che tutte sarebbero (state) evitabili. Lo era anche questa, che si combatte sulla pelle dei civili ucraini, donne, bambini, anziani: le solite, “classiche” vittime di un conflitto.

Invece, siamo esposti (di nuovo e senza soluzione di continuità dopo la pandemia) a un racconto mediatico accordato su una versione della realtà data per indiscutibile dai mezzi di informazione (e da chi dà loro forma e contenuti, ogni giorno).

Sto portando in giro il mio nuovo libro, La libertà è una parola. Sul giornalismo apocalittico, e incontro persone che mi dicono: «Io la penso così, ma non posso dirlo». Non la pensano così da mostri, queste persone, la pensano da individui liberi, o, perlomeno, da individui che ancora si credono liberi.

Non esiste nulla di indiscutibile, nella realtà. Sarebbe bello potere discutere di tutto. Ma, appunto, è diventato difficile, se non impossibile.

La guerra ci chiede un esercizio di umiltà: posti di fronte a ciò di cui siamo (senza eccezione) capaci, ci troviamo nell'obbligo di ricercare le ragioni per cui lo facciamo.

Dobbiamo essere lasciati liberi di farlo.

La scoperta non ci piacerà (non potrà piacerci), ma almeno l'avremo compiuta, da soli.

E, di nuovo, da persone libere.

(g. g.)