Il club della “versione unica”

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L'esercizio più libero che possa esistere oggi prima di dire la nostra è un non esercizio: basta restare fermi e rifiutare di mettere le mani avanti quando ci viene chiesto di fornire le credenziali di appartenenza all'autoproclamato club della "versione unica". Vale anche (dolorosamente) per la tragedia della guerra fra Russia e Ucraina. Tutt'altra cosa sarebbe se ci venisse chiesto di giurare solennemente sull'applicazione della ragione critica alla realtà. Infatti, non ci viene chiesto. In palio c'è soltanto il badge che dà accesso al convivio dei detentori e diffusori della versione ufficiale.

La guerra in Ucraina è una guerra. Punto. Provoca incubi dirlo, ma vanno affrontati. Le caldane di chi vede in essa e quindi denuncia una guerra diversa dalle altre alle quali abbiamo assistito nel secolo scorso e in questo (nella trascurabile qualità di testimone oculare sono disposto a tirare fuori le cassette dei miei filmati per dimostrare che le guerre sono sempre uguali) hanno il valore della stizza che manda sangue alla testa. Soltanto questo. Esistono, tuttavia, delle ragioni che corrono in nostro aiuto per spiegare e capire tale ribollimento. Una sopra tutte: la rinuncia al principio della realtà.

Che cos'è?

Il principio della realtà è l'ossessione per la ricerca e l'individuazione delle cause che stanno a monte degli effetti: verum scire est per causas scire. Vecchio come il mondo. Oggi, invece, siamo alla negazione delle cause quale origine di conseguenze che consideriamo nate dal nulla, meglio ancora se dal Male. Così, la guerra in Ucraina costituisce una tragedia contemporanea non più nel suo saldarsi a ciò che l'ha messa al mondo e che per decenni è stato trascurato, bensì in virtù dell'esclusione data per ovvia (anzi ovviamente obbligatoria) di una possibile e ricostruibile causa. Chi si azzarda a nominarla e a offrirla alla discussione dei punti di vista razionali sul mondo è perduto, consegnato ad aeternum alla parte sbagliata della Storia.

Mai come ora disponiamo di un sapere sulle origini delle guerre: non soltanto perché, rispetto a chi ci ha preceduto e ha fatto e combattuto, provocato e patito altre guerre, siamo gli ultimi arrivati sulla Terra, ma perché come mai in passato disponiamo di innumerevoli sguardi strutturati sul reale che ci consentono (ci dovrebbero consentire) di giungere a conclusioni (anche anticipatrici del disastro) che ai nostri predecessori erano precluse.

Invece no. In Europa siamo consegnati nelle mani di governanti orfani del senso della Storia e incapaci di raccogliere le evidenze della realtà. Aggrava questo stato delle cose l'asservimento della stampa (dell'informazione) al principio della verità assoluta: un ossimoro, giornalisticamente parlando. Una mostruosità filosofica, in senso più largo. Ciò conduce soltanto alla sottomissione della realtà alla finalità di una versione ufficiale del mondo, che è un modo per dire: una versione sempliciotta, e non da ultimo complice dell'indifferenza, dei fraintedimenti. Il problema è che essa rivendica per sé (e la rivendicano i suoi autori e le sue autrici) un'autorevolezza inesistente, che trae la sua pseudo-consistenza soltanto (e in modo fittizio) dall'infinita disseminazione avvitata sul principio dell'emulazione e della reiterazione, mai, però, dalla disponibilità a confrontarsi con altre versioni e a darle, almeno, per ugualmente all'altezza.

Costretti come siamo dentro la narrazione secondo la quale gli ucraini si starebbero battendo anche per la nostra libertà, siamo complici (siamo co-responsabili) di un lento e dolorosissimo processo di annientamento dell'Ucraina. Tolleriamo i morti, in particolare quelli civili, convinti che la nostra eroica determinazione a continuare la guerra sulla loro pelle (soltanto sulla loro pelle) condurrà alla vittoria del Bene contro il Male (ci risiamo). I nostri governanti applicano sanzioni a più non posso convinti che esse, portate avanti questa volta sulla nostra pelle, sortiranno l'effetto desiderato, infine.

Organizziamo inutili (incomprensibilmente inutili) conferenze per la ricostruzione di un Paese di cui ignoriamo non soltanto che cosa resterà, ma altresì il ruolo di vittima sacrificale che gli è stato imposto in una guerra alla quale saremmo stati (noi europei) nella misura di opporci: non con l'invio surrettizio di armi volte soltanto a procrastinare l'agonia di chi combatte e di chi subisce la guerra, ma con una diplomazia matura. Una diplomazia lucidamente consapevole di trovarsi di fronte a un interlocutore disposto, senza esitazioni, a scatenare lo scontro. Non c'è diplomazia matura in Europa: abbondano i tecnocrati o, francamente e con il rispetto del caso, gli immaturi e gli inadeguati.

E invece? Invece sempre si combatte e si muore. Muore la povera gente, in questa guerra come in tutte le altre. Ascoltiamo il presidente dell'Ucraina come mai abbiamo ascoltando il presidente (o anche soltanto la povera gente) di un altro Paese che prima di questo ha subito un torto, gravissimo ma non separabile, oltre che dalla violenza dell'invasore, anche dalle responsabilità dei suoi governanti e da quelle che sono state loro gettate addosso dall'esterno, come in un gioco delle parti, tanto per vedere chi la spunterà.

Siamo convinti di vivere in un mondo nel quale gli effetti si producano nell'assenza totale di cause e della possibilità di aggirarne le conseguenze, perlomeno di intuirle, anticiparle, in particolare quelle più brutali. Facciamo soltanto finta di essere presi alla sprovvista, e quando lo siamo è sempre colpa del Demonio. In questo modo, lo lasciamo libero di scatenarsi. Non siamo a corto di etichette da appiccicargli addosso. A cosa servono? A nulla. Senza dubbio, non a fermarlo.

(g. g.)