Una madre impazzita

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Gideon Levy è una firma storica del quotidiano Haaretz, decano degli intellettuali ultraliberal israeliani. Un uomo che merita profondissimo rispetto. Lo leggo da sempre.

Oggi ha scritto un articolo durissimo, uno dei più duri che ricordi. Nemmeno quando vivevo a Gerusalemme ne avevo letto uno così. Prende spunto dalla morte della giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa ieri da una pallottola che non ha ancora un mandante ufficiale, anche se per Gideon è chiaro: i soldati del suo esercito. Fino a prova del contrario, che sono tenuti a dimostrare, come spiega.

Levy scrive che il sangue di Shireen non è più rosso di quello di altri palestinesi, di altre donne palestinesi. Ad esempio quello di Hanan Khadour, studentessa al liceo uccisa un mese fa a Jenin da un proiettile israeliano. Stava viaggiando con altre persone su un taxi.

Il mondo non ha registrato la morte di Hanan. Chissenefrega! Nemmeno i giornalisti, che ieri, invece, hanno inondato i social di messaggi di solidarietà e condanna.

Tutto vero.

Però è così: noi giornalisti siamo una famiglia. Quelli da terreno, almeno. Ne muore una sparata e ci accorgiamo di quello che facciamo, del mestiere che abbiamo scelto. Anche se non vale più niente. Shireen: come si fa a sparare a Shireen, ammesso che siano stati i tuoi, come d'altra parte un po' sembra studiando anche "da fuori" le poche immagini a disposzione nella rete, Gideon? L'hai mai vista , Shireen? Le hai mai parlato? Shireen, cristosanto! Shireen che una più uguale ad Hanan e a tutte le altre, a tutti gli altri non c'era.

Il sangue è rosso uguale, caro Gideon Levy, nessuno dice il contrario, hai ragione. Oggi, però, il mondo guarda da un'altra parte. Se non ci friggono con l'atomica, torneremo di nuovo a guardare da un'altra ancora. E via che andiamo.

Un giorno del 2004, a Nablus, alcuni ragazzini scagliavano sassi a un paio di jeep blindate dell'esercito israeliano. Uno sparo e subito dopo un bambino viene portato a braccia verso un'ambulanza palestinese. Una jeep stava facendo di tutto per non lasciarla partire. Il bambino era già morto, colpito mentre era alla finestra di casa sua. La madre, impazzita di dolore. L'ho filmata. Dal naso del piccolo usciva un sottile filo. Rosso. Umido. Quasi grasso. Si era fermato a un centimetro dalla maglietta bianca che indossava. Strana la morte. A volte è volgare. Altre, delicata. Anche con Shireen è stata delicata, almeno stando al corpo, a com'era allungato contro un muro. Non sembrava dormire. Nemmeno.

Era semplicemente priva di vita.

Quel giorno del 2004, stavamo lì, a Nablus, quattro giornalisti sudati quando la jeep con il comandante israeliano si è avvicinata. “Guy” (si fanno chiamare tutti così) ha aperto la porta, per rispondere (senza rispondere) a due domande. In quell'istante è cascato a terra, da dentro la jeep, un bossolo. Uno solo. Ha prodotto un rumore terrificante, amplificato dal silenzio che circondava tutti. Ho pensato che fosse quello che poco prima aveva ammazzato il bambino. Un ting ting ting plang assordante: caduto come un biscotto di acciaio e ottone sulla terra arida del quartiere. Mancava soltanto un cane che venisse a leccarlo. Magari a pisciargli sopra, chissà...

A nessuno è fregato nulla della morte di quel bambino. Di sua madre, per sempre fuori di sé. Perduta. Per sempre perduta. Oggi ancora. Non posso saperlo, ma lo sento. Ne sono certo.

Il sangue è rosso uguale, caro Gideon Levy. Quello dei palestinesi, quello degli israeliani. Quello dei miei amici giornalisti di guerra o di terreno (meglio di terreno: di guerra è da esaltati!) che non ci sono più.

I giornalisti dovrebbero scrivere di ogni singola goccia di sangue versato con la violenza e poterne ottenere la pubblicazione. Non succede, e quindi capisco le righe e i pensieri del tuo articolo.

Ti chiedo, come già avrei voluto fare molto tempo fa: come fai a scrivere quello che hai scritto oggi e restare lì? Dove ho vissuto per anni anch'io per lavoro e, pure, ho imparato tanto.

Come fai?

(gianluca grossi)