Jenin: oggi 21 anni fa

© Screenshot Youtube Reuters live feed

C'è un disastro che non interessa più a nessuno. Sono stato un privilegiato a poterlo raccontare quando importava ancora. La battaglia di Jenin, in corso in queste ore fra israeliani e palestinesi, mi riporta ai primi undici giorni di aprile del 2002. Quando accadde la stessa cosa, in modo assai più devastante però. E quando, con pochi altri colleghi, riuscii ad entrare nel campo profughi della città e a documentare la morte e la devastazione.

Mi ero messo in testa di aggirare il divieto israeliano imposto alla stampa (stessa cosa di oggi) di penetrare nel campo profughi di Jenin, in quei primissimi giorni di aprile 2002. Un reporter non serve a nulla se non racconta ciò che ha visto. Intrapresi l'avventura insieme (e grazie) alla mia assistente e interprete, una ragazza palestinese: coraggiosissima, intelligente e astuta. Ci eravamo messi d'accordo con un piccolo manipolo di altri giornalisti.

I soldati israeliani si accorsero ben presto della nostra presenza e si misero a cercarci. Ci nascondemmo dentro la casa di una famiglia palestinese, alle porte del campo, mentre i soldati israeliani ci davano la caccia setacciando la zona a bordo dei loro mezzi blindati (APC).

Attendemmo una mezz'ora, forse di più. Quando il rumore degli APC si fece più lontano, uscimmo allo scoperto, tutti insieme. Ci mettemmo a correre, arrampicandoci su una collinetta. In cima c'erano le prime case del campo profughi. Lì, incontrai per la prima volta James Nachtwey. Teneva abbassato con le mani un filo spinato che ci separava dalla casa, per permettere a tutti di entrare nel cortile senza  ferirsi. Era un collega assai particolare: gentilissimo, solitario, taciturno. Saprì subito, per lavorare in solitudine.

Anche la mia assistente ed io ci separammo presto dal resto del gruppo. Ci guardammo attorno all'interno dei locali di quella prima abitazione: non c'era più nulla che fosse rimasto intero. Era stata lasciata qualche branda militare: servita, forse, da lettiga per i feriti, probabilmente israeliani. Avanzammo con circospezione, avvicinandoci sempre di più alla parte centrale del campo proifughi: c'erano macerie ovunque, pochissime erano le case rimaste in piedi. Incontrai qualche abitante che non se ne era andato. Filmai il corpo carbonizzato di un uomo: mi spiegarono che si trattava di un civile disarmato. Chissà.

Sul campo aleggiava l'odore della morte: non è un'immagine giornalistica, è la restituzione del puzzo dei cadaveri seppelliti sotto le macerie. E sicuramente anche il puzzo di animali morti e di resti alimentari conservati dentro frigoriferi che non funzionavano più. Quando la guerra si fa in una zona urbana, gli odori si mescolano.

Infine, la mia collega ed io ci lasciammo alle spalle Jenin a bordo del Land Rover blindato della televisione britannica ITV. Grazie per il passaggio, ragazzi! Prima che giungessimo al posto di blocco israeliano, il cameraman inglese ed io nascondemmo le nostre cassette con le riprese girate nel campo profughi infilandole dentro i calzini. Funzionò.

Oggi, ripenso la stessa cosa che pensai allora: che non c 'era più nulla, in quel posto. Tutto era finito in pezzi.

Perché?

La stessa domanda di allora, che si affaccia di fronte alla nuova, piccola guerra a Jenin: qual è il senso di tutto questo? Giovani palestinesi che imbracciano le armi e giovani soldati israeliani che vanno ad accopparli.

Non è la Storia a ripetersi. È l'ostinazione con la quale noi esseri umani ci consegniamo sempre alle stesse azioni, incapaci di immaginare la loro alternativa.

Oggi non interessa più a nessuno il conflitto fra israeliani e palestinesi: non interessa la violenza che si consuma nella città di Jenin e altrove nei Territori occupati e anche, a sprazzi, in Israele. Non interessa nemmeno la possibilità di immaginare e di realizzare il suo contrario.

(gianluca grossi)