"Fotografo contrasti"

© 2018 Marko Drobnjakovic

FdR: C'è un modo di fotografare il mondo “da agenzia stampa”?

Marko Drobnjakovic: Penso che ci sia stato qualcosa di molto vicino a uno stile fotografico di questo tipo, uno stile fatto di primi piani, ma anche di scatti realizzati con obiettivi supergrandangolari sfruttando al massimo la loro luminosità. Mi ricordo che questo modo di fotografare era in voga negli anni Novanta. All'epoca, il fotogiornalismo costituiva ancora una delle fonti principali di informazione nei media locali e internazionali. Tuttavia, il fotogiornalismo e la sua funzione sociale non sono immobili, sono anzi soggetti a un cambiamento costante, si sanno adattare, sono fluidi: i fondamenti morali ed etici del mestiere non cambiano, questi no.

Oggi, penso che si possa dire che la maggior parte delle agenzie stampa si siano adattate all'aria che tira, consentendo ai fotografi una maggiore libertà di espressione. Lo stile “da agenzia” si è adattato ai tempi. A parte lo stile, personalmente nutro un grande rispetto e ammirazione per la maggior parte dei fotoreporter che lavorano per un'agenzia: svolgono un lavoro importante in circostanze sempre più difficili.

FdR: Quando ti viene chiesto di fotografare una notizia, una breaking news, su che cosa ti concentri, che cosa suscita il tuo interesse? Sei libero di scegliere ciò che desideri fotografare?

Marko Drobnjakovic: Che sia una breaking news oppure no, cerco di avere lo stesso atteggiamento nei confronti di ciò che fotografo. Il mio obiettivo è scattare fotografie che possano esistere da sole, dare vita a una storia a sé stante, ma che possano anche trasformarsi nelle tessere capaci di raccontare un evento molto più grande e complesso. A volte scatto fotografie che da sole non starebbero mai in piedi, come si dice, ma che inserite dentro una serie di scatti improvvisamente si rivelano utilissime. Tengo sempre presente che alcune fotografie possono diventare importanti con il trascorrere del tempo. A me interessano le storie complesse. Se dovessi scegliere una parola per descrivere ciò che mi affascina, questa parola sarebbe: contrasto. O: contrasti.

Ora, per rispondere alla seconda parte della domanda: sì, come fotografo di agenzia sono assolutamente libero di scegliere i soggetti che mi interessano. Se lavoro con un giornalista, nella mia qualità di fotografo e cameraman, certo capita che la storia da realizzare venga scelta prima e di comune accordo. Quando invece lavoro da solo, a progetti di lungo respiro, trovo la libertà assoluta. È questo che amo fare.

FdR: Il fatto di appartenere alla ”industria dell'informazione” ti fa sentire responsabile (almeno in parte) per le storie raccontate e, in particolare, per quelle non raccontate?

Marko Drobnjakovic: Senza dubbio. Nell'illustrare una breaking news, il fotografo ha il dovere di produrre il massimo dell'accuratezza. Oso dire che nella maggior parte dei casi questo ci riesce. Sono pronto ad assumermi la responsabilità di tutto ciò che faccio, professionalmente e privatamente, e se c'è da discutere sono pronto ad affrontare la discussione.

FdR: Davvero ci viene mostrato ciò che accade nel mondo?

Marko Drobnjakovic: Io penso di sì. Chi desidera informarsi su ciò che accade nel mondo ha la possibilità di farlo. Se parliamo di formare l'opinione pubblica, di darle una forma, un orientamento, questo è un argomento che dipende da più fattori, molti dei quali non rientrano nella sfera della razionalità. Tuttavia, in quanto individui possiamo accedere a un numero di fonti sufficiente per poterci dire informati e per farci un'opinione di ciò che accade nel mondo.

Non c'è dubbio che l'industria dei media (e dell'informazione) stia attraversando una crisi prolungata, non soltanto per l'assenza cronica di soldi, ma anche per quella che chiamo “la vertigine postmoderna”, una crisi di idee e pensieri che sta raggiungendo il suo parossismo. Non è facile informarsi, ma è ancora possibile esserlo.

FdR: Che ruolo ha la fotografia, oggi, che cosa può ancora ottenere?

Marko Drobnjakovic: La fotografia è una forma di comunicazione. Ciò che è riuscita a fare, nella storia, è catturare e tradurre emozioni e informazioni, passarle da una persona all'altra. Non escludo che esistano altri modi per farlo, ma la fotografia ne costituisce uno così elegante, semplice e tuttavia complesso.

Nel mio lavoro ho conosciuto uno spostamento di interesse e concentrazione: sono passato dagli scenari delle breaking news (guerre incluse) ai progetti di lungo respiro ispirati a idee o modi di raccontare personali. La fotografia è diventata lo strumento attraverso il quale esprimo me stesso sui temi che da così tanto tempo mi danno filo da torcere, per non dire: mi danno la caccia.

FdR: Che cosa fotografi quando non fotografi per lavoro?

Marko Drobnjakovic: Non sono uno che fotografa in continuazione. Fotografo quando sento di dovere farlo, quando mi va. Il mio smartphone è diventato, nel tempo, la mia macchina fotografica. Adoro fotografare scene trascurabili e paradossali, oppure situazioni che emergono dalla mia città, Belgrado, e dal quartiere in cui vivo.

Mi piace fotografare mio figlio, che ha quattro anni. Un figlio di questa età richiede molta creatività e la capacità di trovare l'avventura in tutto quello che fai. Lascio che questo si impossessi della mia fotografia, anche quando passeggio con mio figlio. Molte di queste fotografie, comunque, restano private, non le pubblico.

FdR: Hai fotografato guerre e migrazioni, storie umane difficili: non provi, a volte, il desiderio di cambiare?

Marko Drobnjakovic: Francamente: no. Il mio interesse si è spostato, con il tempo, dalle dinamiche e dalle immediate conseguenze di una guerra alle conseguenze proiettate nel tempo, così come alla complessità delle migrazioni di massa e agli interrogativi relativi all'identità individuale e collettiva.

Non desidero cambiare i soggetti che fotografo, ma è cambiato il mio punto di vista: ho concluso che se oggi, fotografando, posso lasciarmi guidare da ciò che ho imparato dai conflitti, sul terreno e studiando, posso dirmi fortunato.