© 2018 Hosam Katan

Hosam Katan è diventato fotogiornalista quasi per forza, perché è nato ad Aleppo e perché nel 2011 aveva 17 anni e un telefonino in tasca: ha cominciato così a fotografare le proteste contro il Presidente siriano Bashar al-Assad e la repressione dei manifestanti da parte della polizia. Poi il desiderio di fare di più, di diventare un vero e proprio fotogiornalista. Con i soldi guadagnati lavorando come fixer – aiutava i giornalisti occidnetali sul terreno – acquista un apparecchio fotografico da un amico e alla fine del 2012 entra a far parte dell'Aleppo Media Center, precedentemente creato da un gruppo di giovani citizen journalists

L’anno successivo comincia a documentare la guerra ad Aleppo come fotografo freelance per l'agenzia Reuters e per la rivista tedesca Stern. Nel maggio del 2015 viene colpito all’addome da un cecchino dell’esercito siriano. Trascorsi un paio di mesi in un ospedale in Turchia torna a fare il suo lavoro ad Aleppo. Alla fine dello stesso 2015 emigra in Germania. Oggi studia fotogiornalismo all’Università delle Scienze Applicate e delle Arti di Hannover. 

Tra i premi ricevuti, da segnalare lo Ian Parry Award e l’IAFOR Documentary Photography Award.

Ad Aleppo hai cominciato a lavorare come citizen journalist. Si tratta di un nuovo modo di fare giornalismo che da un lato ha riempito il vuoto lasciato dai corrispondenti internazionali, dall’altro però non è considerato garanzia di obiettività da parte dei canali ufficiali d’informazione.

Se sei un giornalista locale, come lo sono stato io ad Aleppo, vuole dire che parli di te stesso. Mentre fotografavo sapevo di non essere un professionista, ma ero avvantaggiato dal fatto che parlo l'arabo, è la mia lingua materna, conosco la città e conosco la gente. È chiaro che un fotografo locale che vive dentro una guerra – e non rientra a casa dopo un mese di lavoro come inviato – deve fare più attenzione a non farsi influenzare da questa o quella corrente politica.

© 2018 Hosam Katan

Ma anche i media occidentali non sono impermeabili ai condizionamenti. In Siria nel 2012 e 2013 c’erano dei fotoreporter occidentali e anche loro sono stati coinvolti nella guerra delle immagini. Prendiamo per esempio la copertura delle azioni dei “caschi bianchi”: anche se produci immagini che mostrano semplicemente quello che fanno, non puoi evitare che qualcuno pensi che siano degli eroi dell’aiuto umanitario, altri invece che siano uno strumento di propaganda.

Oggi vivi in Germania. La distanza dalla Siria ha cambiato il tuo modo di vedere il conflitto nel tuo Paese?

Certamente. Da quando mi sono trasferito in Germania ho cominciato a pensare in modo più razionale e ho continuato a crescere professionalmente. In Siria scattavo fotografie di ciò che succedeva attorno a me, ma non riflettevo sul mio lavoro, sul modo in cui le facevo. Qui adesso sto conoscendo il lato accademico del fotogiornalismo: imparo a raccontare le storie con le immagini e a capire come la gente reagisce a una determinata storia. Il mio modo di vedere il conflitto in Siria è cambiato perché ora capisco come i giornalisti ragionano e lavorano con le immagini.

Pensi che sia necessario studiare la professione per essere fotogiornalista?

Posso rispondere basandomi sulla mia esperienza personale. Ho cominciato a essere fotoreporter dal primo scatto, semplicemente perché mi trovavo in Siria, in una situazione di guerra. Nel 2011 facevo foto con il telefonino e subito dopo le mie foto sono state pubblicate dalla Reuters in tutto il mondo. Non ho avuto il tempo di pensare. Me ne sono andato dalla Siria proprio per studiare la professione che stavo già facendo da anni. E anche per fare fotogiornalismo al di fuori della guerra. Sono ancora giovane e voglio usare questa opportunità in Germania per crescere professionalmente. Tutti possono e sanno scattare fotografie, la differenza sta nella storia che racconti.

Il tuo lavoro più importante al momento è il libro fotografico "Yalla Habibi – Living with War in Aleppo". Di cosa si tratta?

È dedicato alla gente di Aleppo est che ha dimostrato di essere resiliente. Ha continuato a vivere la propria quotidianità in un ambiente di guerra. Le foto di Aleppo, che è la mia città, sono state scattate dal 2013 al 2015 e ritraggono momenti sia di angoscia che di felicità, che in una situazione di guerra possono cambiare in un istante oppure addirittura convivere.

Per poter pubblicare questo libro ti sei rivolto a Kickstarter per una raccolta fondi che ha superato l’obiettivo fissato. Significa che il pubblico è ancora sensibile alla guerra in Siria?

Sì, ma sono consapevole che il mio libro non può fermare la guerra. Sono contento che numerose persone mi abbiano aiutato a pubblicarlo, e spero che possa aumentare la consapevolezza di ciò che succede nel mio Paese. Ma il fatto è che se uno compra il mio libro, significa che è già sensibile all'argomento e vuole solo saperne di più. Il problema è raggiungere chi non s’interessa affatto.

Allora secondo te il tuo lavoro di fotogiornalista serve a qualcosa?

Se pensiamo al fatto che dallo scoppio della guerra in Siria sono state diffuse migliaia e migliaia di immagini, foto e video, che raccontano questa realtà e che nonostante ciò il conflitto continua, allora la risposta è no. Ma secondo me si deve distinguere tra l’effetto sugli individui e quello sui vertici della politica. Nel 2015, quando sono arrivato in Germania, ho goduto dell’accoglienza della gente, perché era ben informata su ciò che abbiamo subito in Siria. Il mio lavoro non può fermare la guerra e la morte, ma se le mie fotografie riescono a raggiungere la coscienza anche soltanto di un individuo, a qualcosa servo.

Tu hai 24 anni: come ti vedi fra dieci anni? Di ritorno ad Aleppo?

Ho lasciato la Siria per potere studiare il mestiere che stavo già facendo sul terreno. Per questo motivo, rimanere, tornare o spostarmi di nuovo dipende solo dalla mia professione di fotogiornalista. Nei prossimi dieci anni spero di raccogliere esperienze di lavoro in diversi paesi e non solamente in Siria. Il fotogiornalismo per me non è solo un lavoro: è ciò che dà un senso alla mia vita. Per questo motivo, non importa dove sono, l’importante è che sto fotografando.

(Resy Canonica)

Alcuni scatti di Hosam Katan