Gli omissis di Cassis

Profuga palestinese nella Striscia di Gaza
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È la bufera (una piccola bufera, ma una) attorno al ministro degli esteri elvetico Ignazio Cassis dopo le sue dichiarazioni sul Medio Oriente, in particolare sull'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) e il futuro di questi ultimi nei paesi terzi.
Nessuno può andare in Medio Oriente (nemmeno in maniche di camicia + golfino) e tornare a casa senza qualche ammaccatura. Il Medio Oriente è una brutta bestia.
Cassis ha espresso un pensiero che condividono tutti nel suo mestiere. E un altro che il ministro avrebbe dovuto pensare un po' più a lungo, più profondamente. Se lo avesse fatto, e se poi avesse comunicato la conclusione alla quale sarebbe giunto, avrebbe messo al mondo una vera notizia. Che, però, non c'è stata.
La stampa va avanti certificando come nuove notizie vecchie. Non è colpa dei politici. Questi ultimi, tuttavia, vanno avanti pensando troppo poco. Questa è colpa loro.
Un po' di storia recente.
Nel 2002 il Governo elvetico abbracciò l'Iniziativa di Ginevra, ideata dal professor Alexis Keller, di Ginevra pure lui. Si trattava di un accordo informale ed extragovernativo portato avanti da rappresentanti della società civile e da qualche intellettuale nonché da due o tre illustri sconosciuti su entrambi i fronti: quello israeliano e quello palestinese. Unico ministro in carica allora coinvolto negli Accordi di Ginevra era Yasser Abed Rabbo, palestinese. Nella squadra c'era anche Yossi Beilin, israeliano, che era stato anni prima fra gli architetti degli Accordi di Oslo. Insomma: un paio di nomi blasonati c'erano. Oggi, dove sono?
L'allora ministra degli esteri svizzera Micheline Calmy-Rey abbracciò l'iniziativa, presentata ufficialmente al mondo all'Hotel Hilton di Ginevra il 1° dicembre 2003.
L'obiettivo era: risolvere il conflitto israelo-palestinese.
Mi capitò di intervistare la signora Calmy-Rey nel corso di una visita ufficiale a Hebron. Le chiesi, mentre camminava, e mentre scorreva davanti ai suoi occhi la situazione di questa sfortunata città, se pensava davvero che l'Iniziativa di Ginevra avrebbe risolto quel casino.
Intervenne il suo addetto stampa, dicendomi che se avessi insistito nel porre domande quando le domande non erano previste, la signora non avrebbe più risposto alle domande nemmeno quando erano previste, vale a dire in albergo. Ne venne fuori un altro casino, parallelo...
L'ambizione della premessa (l'ambizione e basta) dell'Iniziativa di Ginevra e l'ambizione dell'allora ministra condannarono gli "accordi" a un poco decoroso naufragio. Sparirono come innumerevoli altre buone intenzioni spariscono in Medio Oriente: nel nulla e nel dimenticatoio. Un esercizio (costoso) fondato sull'idea che si potessero inscenare trattative (condotte dal Ministero degli esteri della Confederazione in ridicola e infantile segretezza, fino all'ultimo) all'ombra dei governi direttamente interessati.
Gli Accordi di Ginevra furono un programma occupazionale per alcuni palestinesi (fortunati) e alcuni israeliani (altrettanto fortunati). Oltre che per alcuni svizzeri, si capisce.
In nuce, l'Iniziativa di Ginevra prevedeva la creazione di uno Stato palestinese (Gaza e Cisgiordania) in cambio del riconoscimento palestinese dello Stato di Israele quale patria spettante di diritto al popolo ebraico.
L'Iniziativa si chinò pure sulla questione dei profughi palestinesi e dei loro discendenti, che acquisiscono per diritto lo statuto di profughi nei paesi terzi.
Recita l'Articolo 7, sezione 4.c dell'Iniziativa:
L'opzione IV (Israele come luogo di residenza permanente) sarà a discrezione sovrana di Israele, e in accordo con la quota che Israele sottometterà alla Commissione internazionale. Tale quota rappresenterà il numero totale di rifugiati palestinesi che Israele accetterà. Come base, Israele considererà la media del totale delle quote sottoposte da paesi terzi alla Commissione Internazionale.
La traduzione nel linguaggio che utilizziamo tutti i giorni quando facciamo la spesa è: zero profughi palestinesi accettati da Israele.
Il Governo elvetico lo aveva detto 15 anni fa. Delegando tale (clamorosa) affermazione a un esercizio di diplomazia fittizia e a un linguaggio capace di fare concorrenza a un fumogeno. Nessuno si indignò.
Quanto espresso dal consigliere federale Cassis qualche giorno fa, in occasione della sua visita in Giordania, è un copy-paste. Un copia-e-incolla di questo passaggio del testo dell'Iniziativa di Ginevra. Rispecchia quanto pensano tutti i governi. Non soltanto occidentali. I profughi palestinesi non faranno mai ritorno a casa loro.
Non e un'opinione: è una fotografia della realtà. A meno di pensare il mondo in una prospettiva millenaria.
Il ministro degli esteri elvetico si è però avventurato in una dichiarazione che costituisce la parte non pensata fino in fondo del suo pensiero. Ha detto, in un'intervista alla Argauer Zeitung e riferendosi ai palestinesi:
Die Flüchtlinge haben den Traum, nach Palästina zurückzukehren. Unterdessen leben weltweit nicht mehr 700'000, sondern 5 Millionen palästinensische Flüchtlinge. Es ist unrealistisch, dass dieser Traum sich für alle erfüllt. Die UNRWA hält diese Hoffnung aber aufrecht. Für mich stellt sich die Frage: Ist die UNRWA Teil der Lösung oder Teil des Problems?
Punto uno: il ministro ha parlato di “sogno”. Avrebbe dovuto utilizzare la parola “diritto” (nonostante la convinzione che egli sembra avere secondo cui tale diritto non potrà mai essere esercitato. Resta, tuttavia, un diritto). Questo è uno scivolone giuridico e diplomatico.
Punto due: il ministro degli esteri ha indirettamente sfiorato, senza approfondirlo (non so se per mancanza di conoscenza del Medio Oriente o di coraggio) un argomento fondamentale (il solo vero argomento, potremmo dire), sebbene marginalmente e con scarsa intermittenza se non addirittura mai discusso dalla comunità internazionale.
L'argomento è questo: l'aiuto umanitario fornito dall'Europa (anche dalla Svizzera) e dal resto del mondo (UNWRA inclusa) ai palestinesi nei territori occupati (Cisgiordania e Gaza) può essere interpretato quale complicità attiva nei confronti dell'occupazione israeliana.
Tale aiuto esime lo Stato israeliano dal prendersi cura della popolazione occupata militarmente nonché attraverso la costruzione di colonie destinate alla popolazione civile. Tale aiuto sgrava lo Stato israeliano dei costi materiali dell'occupazione. Fra i miei amici israeliani, non pochi sostengono che l'occupazione sia un investimento.
Il giorno in cui cessasse questo aiuto umanitario (sanità, istruzione, funzionamento della macchina amministrativa ecc.) Israele dovrebbe farsi carico di 4 milioni di palestinesi e delle loro necessità vitali. Lo prevede, di nuovo, il diritto internazionale, oltre che l'evidenza. Che succederebbe? Status quo o svolta?
Sarebbe la sola iniziativa diplomatica capace di risolvere il problema israelo-palestinese. Per promuoverla servono: esperienza e coraggio. Oltre che la convinzione.
Fatto questo, bisognerebbe successivamente chiedere ai paesi terzi arabi (in particolare Libano e Giordania, mentre la Siria, prima della guerra, costituiva un esempio virtuoso e in controtendenza) di considerare i profughi palestinesi cittadini di pari grado, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri.
L'UNRWA non è parte del problema, signor ministro: è l'espressione (posso concederle: non sempre simpatica), e fra le molteplici altre, della sua complessità.
(Gianluca Grossi)