Ai confini del pensabile. E oltre / 1
© 2024 FdR
La mia riconoscenza va in modo particolare a chi ha pensato che potesse avere un senso invitare, quale ospite di questa conferenza, uno che ha pubblicamente confessato, a teatro e in un libro intitolato Sulla guerra. Perché non riusciamo a non farla (edito d Redea), di essere servito a zero. Che avesse, voglio dire, non un senso clinico, che sarebbe comunque azzeccato per la presenza, questa sera fra il pubblico, di studenti di cure infermieristiche, bensì un senso intellettuale.
Nel raccogliere l'invito che mi è stato esteso ero consapevole del rischio che avrei corso: come può, infatti, un inservibile credere di avere qualcosa di utile da dire?
E come potrò io, dicendolo come intendo dirlo io questa sera, evitare di essere preso con l'accondiscendenza che, ancora oggi, riserviamo ai matti, ai quali diamo ragione temendo che contraddirli possa peggiorare le cose?
Dipenderà da voi!
Da sempre il rimprovero di avere saldato la ragione alla follia è il prezzo che deve pagare chi resta fedele all'esercizio del pensiero critico applicato alla realtà e, in particolare, applicato ai luoghi comuni mantenuti in vita artificialmente.
Fra questi luoghi comuni ce n'è uno che mi toglie il sonno.
Mi toglie il sonno sebbene venga coltivato sapientemente per permetterci di addormentarci la sera: si tratta dell'idea secondo la quale esiste una guerra tollerabile, guardabile, sopportabile, una guerra pulita dentro la quale i morti ringraziano chi li ha ammazzati per averli mandati al Creatore rispettando la loro dignità di esseri umani, una guerra nella quale nessuno e non per un solo istante sconfina nelle terre che definiamo del Male.
Vedete, da sempre l'essere umano fa la guerra e da sempre si illude di poterla controllare. Ricorre, per questo, alla filosofia, all'etica, alla morale e non da ultimo alla religione: dall'antica India, all'antica Cina, all'antica Grecia,, al Corano, agli antichi Romani.
È stato però necessario attendere l'epoca moderna e contemporanea per vedere introdotti precetti giuridici sulla conduzione della guerra ampiamente sottoscritti (condivisi molto meno) dagli Stati e sottoposti a costante aggiornamento.
Cercherò quindi di fare a pezzi il luogo comune che, ancora oggi e, direi, soprattutto oggi ci permette di credere che sia possibile evitare che la guerra sfugga di mano a chi la fa. Cercherò di sbarazzarmi del luogo comune che spinge molti di noi a credere che la guerra non sia quella che è: che esiste una guerra diversa.
Vi chiedo soltanto di seguirmi ai confini del pensabile e oltre: è infatti a quelle latitudini che è possibile affrancarci dalla versione ufficiale del mondo e opporre la resistenza del pensiero all'ossequio soffocante che essa costantemente ci chiede di mostrare nei suoi confronti.
L'esercizio del pensiero critico crea solitudine. Mi confortano, tuttavia, le persone incontrate nelle terre devastate dalla guerra, persone che, attraverso un atto di fiducia e di fratellanza incommensurabili, mi hanno affidato la loro vita affinché la raccontassi, nella speranza, vana, che quella loro vita potesse cambiare grazie ai miei racconti.
Mi confortano, non ne farò certo mistero questa sera, anche i morti di guerra, ai quali ho sempre e soltanto avuto la pietà da fornire quale garanzia dell'utilizzo che avrei fatto dei miei scatti fotografici e delle mie immagini videografiche.
Quando mi fanno visita, di notte nei sogni o molto più spesso di giorno e a occhi aperti, questi morti non generano incubi. Nascono, fra di noi, lunghe conversazioni. I morti, con l'ironia che li caratterizza, mi interrogano su quanto sia stata umanamente sostenibile la bomba che li ha consegnati a miglior vita.
Ho trascorso una parte della mia, di vita, raccontando le tragedie generate dalla guerra.
Qual era la ragion d'essere delle mie fotografie, dei miei filmati? Di questa fotografia, ad esempio?
© 2024 FdR
Una soltanto era: fermare la guerra,in particolare fermare la guerra dentro la quale di volta in volta mi trovavo.
Con il passare del tempo mi sono sentito sempre più simile a un medico che, osservando la radiografia di una gamba fratturata, si rivolge al paziente dolorante ringraziandolo per essersela lasciata fare, gli garantisce che l'immagine della sua tibia finirà in un archivio ben conservato, e candidamente gli confessa di non potere fare altro: il malcapitato paziente dovrà tenersi la gamba rotta.
Mi sono allora consegnato a un lungo e, lo confesso, doloroso lavoro su me stesso. Nell'impossibilità di considerare gli anni trascorsi dentro la guerra un capitolo della mia vita che avrei potuto chiudere, sebbene volessi testardamente chiuderlo per passare ad altro, ho capito che dovevo guardare alla guerra con lo sguardo di uno scampato.
Mi sono detto che se il racconto dei disastri della guerra non scoraggia l'essere umano dal consegnarsi nelle braccia di sempre nuove guerre, deve esserci un altro modo per trattenerlo.
Infine ho capito che dovevo riflettere sulla guerra.
Sono infatti convinto che questo sia l'unico modo per trasformarla in un pensiero che non esiste, in un vuoto di pensiero: l'unico modo per rendere la guerra impensabile.
Riflettere sulla guerra significa ricercare le cause che, oggi ancora, rendono possibile l'obbedienza dei soldati, la sopportazione dei civili e il tifo che, da casa, un po' tutti fanno per una o per l'altra parte coinvolta in un conflitto.
Riflettere sulla guerra significa partire da lontano, da prima che la guerra esploda sui campi di battaglia: partire dal processo di preparazione della guerra e alla guerra.
Soltanto dopo averla pensata, in questo modo, fino in fondo, la guerra diventerà impensabile.
Sono forse diventato un pacifista? Nemmeno per sogno!
Come potrei, sapendo bene che sarei stato pronto a farla anch'io, nemmeno per convinzione, ma così, tanto per farla, visto che ci stavo dentro fino al collo. La guerra è facile da fare.
Odio la guerra perché detesto essere preso per un imbecille.
La guerra è possibile soltanto se accettiamo di essere presi per degli imbecilli. Mi spiegherò.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere, sebbene soltanto in modo indiretto, una persona straordinaria che non c'è più. Questa persona si chiamava Francesco Ferrari ed è grazie a sua figlia Francesca, alla quale sono molto riconoscente, se ho scoperto suo padre attraverso uno scritto.
Francesco Ferrari nacque nel secolo scorso in Scozia, figlio di un emigrato in Gran Bretagna da Ludiano, in Valle di Blenio.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Francesco Ferrari si arruola nell'esercito britannico. Viene dapprima trasportato in Francia, vicino al confine con il Belgio. La mattina dell'11 maggio 1940 giunge a Bruxelles: lì avviene il battesimo del fuoco, i tedeschi attaccano. Scrive:
«Le strade sono piene di profughi, donne, vecchi, bambini, che subiscono anche loro, come noi, terribili bombardamenti e mitragliamenti. Spesso dobbiamo arrestare i nostri convogli, scendere, trasportare i corpi di queste persone morte o ferite sul ciglio della strada, senza purtroppo poter far niente per loro, perché dobbiamo proseguire, andare avanti (...)».
Gli inglesi, incapaci di reggere il fuoco tedesco, si ritirano. Francesco Ferrari arriva a Dunkerque. Sono giorni rimasti indelebilmente depositati nella sua memoria. Partecipa, infatti, alla celebre battaglia che porta il nome della località francese. Scrive, ancora:
«Passammo tre terribili giorni a Dunkerque. Di notte si portavano via i feriti e i morti. I morti, così tranquilli, ci davano un senso di invidia nel loro eterno sonno, in mezzo a tutto quel caos».
I soldati rimasti vivi sotto le bombe tedesche invidiano i morti: è un'immagine sconvolgente.
Sbaglieremmo, però, concludendo che Ferrari intendesse suggerire che la morte fosse preferibile alla vita diventata insostenibile.
Quei morti «così tranquilli» sparsi per le strade e sui campi di battaglia privano la guerra della sua realtà e quindi la negano. Quei morti sono estranei alla guerra, si permettono addirittura di ignorarla nell'istante medesimo in cui essa, prepotentemente, chiede di considerarla come la sola realtà pensabile.
Non è una percezione rassegnata, quella di Francesco Ferrari: è una dichiarazione di scandalosa resistenza, anzi di rivolta alla guerra.
Che a rivoltarsi sono i morti, e nn i vivi come invece dovrebbero, esplicita ciò che io definisco l'assurdità della guerra.
“Caos” è la parola centrale nella descrizione di Francesco Ferrari.
Non si tratta soltanto di una percezione fisica di totale confusione.
Il caos è una dimensione cognitiva: suggerisce la presenza di un mondo uscito dai cardini che, fino ad allora, fino allo scoppio della guerra, costituivano la garanzia del suo ordine.
Chiamo spaesamento o disorientamento quello che Francesco Ferrari definisce l'esperienza umana del caos generato dalla guerra.
Questa esperienza riguarda tanto i combattenti quanto i civili, ma anche il personale sanitario e, più in generale, umanitario. Potrebbe, quindi, toccare anche a voi il giorno in cui andrete sul terreno.
È un'esperienza che assume forme molteplici che io definisco “rivelazioni” o “manifestazioni”, da intendere, lo sottolineo, quali esperienze cognitive, quindi del pensiero.
Ve ne illustrerò più di una, questa sera.
La madre di tutte le rivelazioni è quella avuta duemila anni fa dal filosofo romano Seneca.
In una lettera al poeta Lucilio, scrive:
«Reprimiamo gli omicidi, gli assassini di singoli individui: ma che dire delle guerre e dello sterminio di intere popolazioni, delitti di cui ci si vanta? (...) Le atrocità vengono sancite dai decreti del Senato e del popolo e si comanda in nome dello Stato quello che è proibito in privato. Quei delitti che, compiuti di nascosto, verrebbero puniti con la pena di morte, noi li approviamo perché li hanno promossi gli alti ufficiali».
Il paradosso illustrato da Seneca è una delle manifestazioni del caos, del disorientamento di cui l'essere umano in guerra compie l'esperienza. È mai possibile che la legge tolleri in guerra ciò che persegue in tempo di pace?
Ce ne sono altre di rivelazioni.
La guerra ci espone all'esperienza della morte degli altri (commilitoni, colleghi, familiari, amici, persone sconosciute), ma anche alla possibilità sempre imminente della nostra morte.
In guerra, ci scopriamo capaci di uccidere i nostri simili. È un'azione che prima della guerra non soltanto ci saremmo rifiutati di compiere, ma della quale ci credevamo incapaci: ad essa guardavamo con orrore.
In guerra capiamo quanto sia facile ammazzare qualcuno senza provare sensi di colpa.
Questo gesto portatore di morte viene percepito come legittimo (in pratica legale) in virtù dell'obbedienza dovuta all'ordine impartito dall'alto: “Aprite il fuoco!”.
Ben presto, ogni residua esitazione di carattere morale è spazzata via dall'istinto di sopravvivenza.
Anche i civili compiono l'esperienza del caos in guerra, dello spaesamento: la compiono, ad esempio, nel constatare che la vita ha smarrito qualsiasi valore, che la dignità dell'essere umano importa un fico secco, che il vicino di casa è capace di tutto pur di sopravvivere, che persone ritenute per bene si sono messe a saccheggiare, a rubare, a minacciare e a sopraffare, e che quel mors tua vita mea che si credeva tragica prerogativa dei soldati vale, in realtà, anche per i civili.
Il 19esimo e in particolare il 20esimo secolo hanno cercato una via d'uscita, anzi una via di fuga dal paradosso di Seneca e, di conseguenza, dallo spaesamento che proviamo tutti, quando siamo dentro, ma anche di fronte alla guerra.
L'uomo d'affari svizzero Henry Dunant, che tutti conoscono come il padre del Comitato internazionale della Croce rossa, il 24 giugno del 1859, si trova a Solferino, in Italia. Per caso è testimone delle conseguenze della celebre e sanguinosa battaglia risorgimentale. Nel 1862 pubblica il volumetto Un ricordo di Solferino.
La battaglia causa migliaia di morti fra gli alleati franco-sardi e l'esercito austriaco. Dunant constata che i feriti vengono lasciati agonizzare sul campo di battaglia. Vengono aiutati soltanto dagli abitanti dei villaggi, in particolare dalle donne: esse pronunciano, alla vista dei soldati moribondi, la formula diventata famosa: “Tutti fratelli”.
Colto da spaesamento, Dunant ha un'intuizione: chiedere agli Stati e ai Governi di condurre la guerra in modo più umano consentendo l'entrata dei soccorsi sui campi di battaglia.
Il CICR, che vedrà la luce qualche anno dopo il libro di Dunant, è la prima, grande pezza messa al vuoto etico e giuridico dentro il quale la guerra era stata combattuta fino ad allora.
Nel 1907, altra pezza. Vedono la luce le Convenzioni dell'Aja, con le quali le grandi le potenze si impegnavano ad attenersi a un certo numero di regole nella conduzione della guerra. Buone intenzioni di lì a poco spazzate via dalla Prima Guerra Mondiale, che vide i soldati usati come carne da cannone e l'impiego abbondante di gas mortali.
Nel 1949, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, vedono la luce le quattro Convenzioni di Ginevra, che, a oggi, costituiscono il corpus normativo più completo per sottrarre la conduzione dei conflitti al vuoto giuridico generato dalla guerra. Tale corpus è anche chiamato Diritto umanitario internazionale.
Seneca deve essersi rigirato nella tomba. La sua denuncia senza mezzi termini della guerra aveva partorito una mostruosità: gli Stati non si erano accordati per non fare mai più la guerra, bensì per continuare a farla richiamandosi a principi umanitari.
Veniva così messa la pezza più vistosa e clamorosa all'ossimoro individuato da Seneca: grazie al quadro giuridico del Diritto umanitario internazionale le guerre
potevano ora vantare addirittura la loro legalità e gli “assassini” in esse commessi e diversamente puniti in tempo di pace diventavano giuridicamente ineccepibili, a condizione che rispettassero alcune norme. Erano tollerabili. Anzi, tollerati.
Vedeva così la luce la versione umana e umanamente sopportabile della guerra. Una guerra siffatta esonerava gli Stati e i loro cittadini dal non farla: la guerra era diventata, infine, auspicabile.
75 anni dopo le Convenzioni di Ginevra, esattamente il 18 novembre scorso, il ministro degli Esteri elvetico, Ignazio Cassis, dichiarava in un'intervista quanto segue:
«Tutti si appellano, richiamano al rispetto del diritto internazionale umanitario e, nel contempo, esprimono frustrazione perché le leggi internazionali e le risoluzioni dell’ONU non vengono osservate da diversi Stati».
Cassis aveva ragione da vendere, sebbene pronunciasse un'ovvietà: la legge non è uguale per tutti. Non lo è nemmeno quella umanitaria.
Israele, che dopo il 7 ottobre 2023 ha scatenato una guerra contro Gaza, dove le vittime, stando a un documento dell'ONU, sono al 70 % civili, è stato più volte esortato a rispettare il Diritto umanitario internazionale. Ciò non ha impedito a chi si sgolava, vale agli Stati Uniti in primis, di fornire a Israele armi, munizioni e, addirittura, le cosiddette dumb bombs, le bombe stupide, quelle che cadono a causa della forza di gravità, e pace e amen se cadono alla carlona, senza fare alcuna distinzione fra combattenti e civili.
Il 20 novembre scorso, il presidente USA Joe Biden ha autorizzato la fornitura all'esercito ucraine di mine anti-uomo. Sono fuorilegge dal 1980. Prima ancora,Washington aveva fornito all'Ucraina le bombe a grappolo, anch'esse fuorilegge. Importa a qualcuno, forse?
Stati Uniti ed Europa hanno a più riprese accusato la Russia di violare il Diritto umanitario internazionale e le leggi sulla guerra. È vero: la Russia impiega bombe a grappolo e i suoi bombardamenti hanno fatto e continuano a fare morti fra i civili.
Che pure le bombe (a grappolo e non) e i missili di Kiev hanno fatto e fanno morti civili nel Donbass non ha suscitato alcun accorato appello a rispettare il principio di distinzione fra civili e soldati, che costituisce uno dei pilastri delle Convenzioni di Ginevra.
Ricordate la guerra dei droni “contro il terrorismo” scatenata in Medio Oriente dall'ex presidente USA Barak Obama? Nessuno ha mai pensato di contestargli il premio Nobel per la Pace, nonostante il gran numero di civili uccisi proprio dai suoi droni in Afghanistan, Pakistan e Yemen.
E ancora: quando gli Stati Uniti e i loro alleati britannici e francesi rasero al suolo la città di Raqqa in Siria, e quella di Mosul in Iraq, lo fecero perché esse erano le roccaforti dello Stato islamico. Si trattava di una causa a tal punto buona dall'escludere che i bombardamenti fatti in suo nome potessero contravvenire al Diritto umanitario internazionale.
Io c'ero, a Mosul, e posso garantirvi che la città era ancora abitata dai civili. Non tutti erano riusciti a fuggire. Non si è mai saputo in quanti morirono a Raqqa e a Mosul. Nessuno era interessato a saperlo.
Torniamo alla dichiarazione del Consigliere federale Cassis: è interessante aldilà dell'ovvia, sebbene non trascurabile constatazione di quanto siano ballerine le leggi della guerra.
Cassis suggerisce indirettamente che se tutti rispettassero il Diritto umanitario internazionale potremmo stare tranquilli. Le guerre continuerebbero a essere combattute, ma smetterebbero di produrre immagini terrificanti e, così, di procurarci grattacapi umanitari.
Cosa chiedere di più alla vita? Anzi, alla guerra?
Ecco illustrata, in estrema sintesi, la criticità del corpo giuridico introdotto nel 20esimo secolo per disinnescare il paradosso di Seneca: farci credere che una guerra ossequiosa del Diritto umanitario internazionale è una guerra pulita, accettabile e giuridicamente “giusta”.
Di qui a concludere che una guerra giusta è anche buona, nell'accezione etico-morale dell'aggettivo, e che possa esistere, quindi, una guerra buona e giusta il passo è breve. Anzi, non si tratta nemmeno di un passo. È una chiusa logica. È un auspicio.
(gianluca grossi)
- contiinua -
ENGLISH VERSION
At the edge of the thinkable. And beyond / 1
GLI ALTRI EPISODI
Ai confini del pensabile. E oltre / 2