Ai confini del pensabile. E oltre / 2

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Dove e da cosa nasce l'idea del cerotto etico-giuridico che l'essere umano cerca, da sempre, badate bene sin dall'Antichità, di mettere alla guerra?

Nasce dalla convinzione che la guerra è consustanziale alla natura dell'essere umano. Ne era convinto, ad esempio, Aristotele. Se volessimo rifarci a Thomas Hobbes, diremmo che la guerra è manifestazione dello stato di natura nel quale l'uomo è lupo all'uomo (homo homini lupus). Tale certezza è derivata dalla capacità oggettiva dell'essere umano di compiere la violenza: l'essere umano uccide in guerra poiché uccide anche in tempo di pace.

Riconoscere questa predisposizione alla violenza equivale a considerare la guerra una manifestazione inseparabile dal nostro essere al mondo.

È un attimo, da qui, concludere che la funzione preventiva e di contenimento rivestita dalla legge applicata alla società in tempo di pace possa sortire il medesimo effetto quando viene applicata a una guerra.

Quale errore, tuttavia!

Soltanto una scarsissima, per non dire assente conoscenza dell'essere umano può spingere a sostenerlo.

È vero che la guerra non esisterebbe se l'essere umano non fosse capace di violenza, ma è altrettanto vero che la capacità di essere violenti non è ciò che ci predispone alla guerra.

La guerra non è la conseguenza del nostro sapere-essere-violenti.

Tenetevi forte, ne sto per dire una grossa, una delle mie.

La guerra è contro natura. È, cioè, una manifestazione che vede coinvolto l'essere umano, ma che va contro la sua natura. Non esiste, infatti, un gene della guerra. La guerra non è la conseguenza di un determinismo genetico. Non è ereditaria.

La guerra non risponde nemmeno al principio della pentola a vapore: non costituisce l'indispensabile sfiatatoio per la violenza accumulata dai popoli.

È vero il contrario: l'essere umano deve essere portato alla guerra, deve essere sapientemente e astutamente preparato e poi esortato ad andare in guerra, convinto a credere alla guerra, a cedere alla sua necessità.

È un lavoro spingere un popolo e una nazione alla guerra, spingerci gli impiegati, i dirigenti, i banchieri, i meccanici, i medici, le casalinghe, le commesse, le avvocatesse, le donne manager, i poveri cristi, i disoccupato e i buontemponi, i fedifraghi e le loro amanti, oppure i loro amanti, è uguale.

C'è un bel po' di strada da percorrere prima di essere dentro una guerra. È indispensabile costruire, pietra su pietra, quello che definisco il monumento all'ante-guerra.

Soltanto dopo, parecchio tempo dopo interviene la capacità dell'essere umano di esprimere violenza.

La guerra è un corpo estraneo al nostro organismo che, attraverso il sotterfugio, veniamo spinti (convinti) a riconoscere e quindi ad accettare come familiare, come parte naturale costitutiva del nostro organismo e, ancora di più, del nostro stare al mondo.

Ciò non significa riconoscere all'essere umano una «mitezza» (Seneca) innata, o addirittura una bontà originaria (Rousseau) che la guerra verrebbe a corrompere e a snaturare. No: l'essere umano è capace di violenza e ne dà prova in ogni circostanza, ma in questa capacità non va scorta una predisposizione alla guerra. La guerra non è la continuazione necessaria perché naturale della violenza di cui l'essere umano è capace.

A questo punto mi chiederete, a ragione: come è possibile che ciò che è contro natura esiste da sempre e continuiamo a farlo?

Non aspettavo altro! È possibile poiché siamo costantemente esposti a un racconto della guerra viziato.

È viziato il racconto che ci aizza ai campi di battaglia mentendo sulle ragioni del sacrificio che ci viene chiesto di consumare e che consumeremo cantando, ormai consegnati a una febbre collettiva.

Ed è viziato il racconto della guerra, delle sue conseguenze.

Due esempi.

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In un recente articolo, la Neue Zürcher Zeitung (NZZ) ha raccontato la storia di un gruppo di soldati israeliani reduci dalla guerra di Gaza che trascorrevano un periodo di “recupero” in Svizzera, invitati da alcune associazioni israelite. Il giornalista ha rivolto ai soldati tutte le domande possibili, tranne due: che cosa avete visto, che cosa avete fatto a Gaza?

La NZZ non ha rivolto queste due domande, le sole che contassero davvero, perché le risposte dei soldati avrebbero costretto il pubblico a confrontarsi con la guerra per come è davvero, non per come ci piacerebbe che fosse.

Come ci piacerebbe che fosse lo mostra un ulteriore passaggio dell'articolo della NZZ. Il giornalista descrive uno dei giovani soldati israeliani intento a suonare al pianoforte il brano Halleluyah di Leonard Cohen.

Non è un dettaglio trascurabile: riuscite a immaginarvi questo soldato-pianista scatenarsi sul campo di battaglia a Gaza? È difficile. Nel resoconto della NZZ – uguale a infiniti altri – la guerra scolora in un remoto secondo piano fuori fuoco.

Secondo esempio di racconto della guerra viziato.

Dal suo inizio il conflitto in Ucraina è stato glorificato.

I media europei e più in generale occidentali hanno mostrato le fotografie dei giovani soldati ucraini tornati dal fronte amputati di un braccio o di una gamba.

Sono stati fotografati a colori con le loro luccicanti protesi: gli articoli spiegavano che questi soldati non vedevano l'ora di ricominciare a combattere.

Erano superuomini, supereroi!

Erano, addirittura, più belli e più desiderabili ora che avevano perduto, grazie alla guerra, un pezzo del loro corpo.

Se la guerra è questa, perché non farla, perché fermarla? Perché considerarla contro natura?

Queste immagini non avevano lo scopo di raccontare la guerra, bensì di alimentarla, di tenerla in vita.

Avvertenza: i russi hanno fatto e fanno, da parte loro, esattamente la stessa cosa.

Sulla stampa c'era pochissimo spazio, quando c'era, per i reduci tornati sfigurati dal fronte, inguardabili, con una parte della testa portata via da una scheggia, senza occhi, con un buco al posto del naso o sulla pancia al posto dell'intestino.

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Mostrare queste immagini avrebbe fornito la contraddizione più clamorosa alla narrazione mistificatrice che della guerra in Ucraina e della guerra in generale viene prodotta: la narrazione di una realtà sopportabile in virtù del suo essere un'espressione della natura umana.

Quale raggiro!

Il suo effetto è analgesico, anzi psicotropo. Funziona anche in trincea.

Quando la sua azione si affievolisce, l'essere umano in guerra capisce che è contro natura la violenza da lui commessa e subita o vista commettere da altri, la sofferenza imposta ai civili, la morte di donne e bambini, la paura, l'odio che assume forme mostruose.

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È un'altra delle rivelazioni generate dallo spaesamento di cui ci stiamo occupando.

Disorientato, spaesato appunto, l'essere umano precipita allora in una crisi profonda, dalla quale cerca di uscire in due modi.

Il primo modo: produce sempre più violenza nella speranza di restare vivo, ma anche di restare savio, cioè sano di mente. Si avvinghia all'illusione che la violenza scatenata al grado massimo possa renderlo immortale e cancellare per sempre dalla sua memoria le azioni compiute o viste compiere da altri.

Il secondo modo per contrastare la crisi è questo: l'essere umano decide di impedire a se stesso di produrre ulteriore violenza e sceglie di darsi la morte, che è anche morte, cioè cancellazione definitiva della memoria.

E. M. era un soldato riservista israeliano di 40 anni. Dopo il 7 ottobre 2023 si è arruolato per combattere nella Striscia di Gaza. Al suo ritorno a casa si è tolto la vita. «E. era uscito da Gaza, ma Gaza non era uscita dalla sua testa», ha dichiarato alla stampa israeliana una familiare.

Louis-Ferdinand Céline scrive nel volume intitolato Guerre, al quale consegna le sue memorie di soldato nella Prima Guerra mondiale:

«J'ai attrapé la guerre dans ma tête. Elle est enfermée dans ma tête».

La guerra come qualcosa che si può prendere, un virus, un malanno: questa descrizione corrobora la mia convinzione secondo la quale la guerra non è iscritta nel nostro genoma, è al contrario un elemento esterno ed estraneo (contro natura, appunto), del quale, in un certo senso, ci ammaliamo.

Quando la guerra finisce, la società desidera una cosa soltanto: tornare sana al più presto, dimenticare come sia stato facile consegnarsi al macello e cancellarne ogni traccia.

Essere cancellati è la sorte che tocca ai reduci, questa volta sorte vera, non la finzione condita di gloria al technicolor di cui ho parlato poco fa.

Ne scriveva Francesco Ferrari, ricordando il ritorno a casa dalla guerra, il suo e quello di molti suoi commilitoni.

«È un impatto terribile, un urlo feroce e tremendo. Il papà governo, la madre patria quando hanno bisogno del tuoi aiuto per difendere il proprio territorio, che è anche il tuo, la propria libertà, che è pure tua, ti chiamano per servire il Paese, per combattere il nemico. (...) Poi arriva la tanto sospirata fine della guerra e, vincitore o vinto, le Autorità militari e civili ti ringraziano, magari con un bel certificato di buon servizio e gentilmente ti congedano. E tu lasci lì tutto ed esci dalla porta come un pulcino bagnato ad affrontare un mondo che ha dimenticato. Così è il reduce da un lungo periodo bellico (...): tutto finisce e devi affrontare di nuovo una vita che per anni e anni hai dimenticato (...). Sei come un bambino che deve imparare a camminare, una persona offesa nel corpo che deve imparare ad usare gli arti, a parlare, a scrivere. Il soldato reduce dalla guerra rimane solo, terribilmente solo. Ve lo dico perché anch'io ne ho sofferto l'amara esperienza. Nessuno ti aiuta perché non comprende in quel momento il tuo stato d'animo. E così tanti, troppi purtroppo, finiscono in cliniche psichiatriche o in mano di guardiani di carcere».

Mi sono più volte chiesto se sia possibile compiere l'esperienza della guerra senza esserci stati dentro, voglio dire l'esperienza della guerra per come essa è davvero, per lo scatenamento senza argini che rappresenta.

Sì, a volte è possibile anche standone fuori, standosene pacificamente a casa: è possibile quando della guerra percepiamo lampi improvvisi sfuggiti al controllo esercitato da quello che ho definito il suo racconto viziato.

È un'esperienza che consentono di fare i social, vale a dire i media non tradizionali.

Come reagiamo a questa rivelazione?

Reagiamo, colti da vertigine e da imbarazzo, sempre e soltanto allo stesso modo: imputiamo l'esistenza del macello a una delle parti in conflitto, che, guarda caso, è sempre e soltanto quella contro la quale abbiamo preso partito. Alla sua disumanità imputiamo l'esistenza delle immagini che vediamo. In questo siamo confortati e accompagnati dal racconto viziato della guerra prodotto dai media tradizionali.

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Rifiutiamo, quindi, di ammettere che la guerra è questa, che queste sono le immagini che la guerra, ogni guerra produce. Se non le producesse sarebbe una rissa, una scazzottata.

Come potremmo ammetterlo, d'altronde? Se lo facessimo ci cadrebbe addosso il castello di bugie e di ipocrisie così sapientemente dissimulate dalla finta convinzione che esiste un'altra guerra, una guerra combattuta in modo diverso, vale a dire nel pieno rispetto Diritto umanitario internazionale.

(gianluca grossi)

- continua -