Ai confini del pensabile. E oltre / 3

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Oggi mi affido alla ragione. È uno strumento fragile, lo so: è infatti la ragione che gli esseri umani perdono accettando di andare in guerra. La ragione non può nulla se non è accompagnata e sorretta da un estenuante esercizio di incondizionata fedeltà nei suoi confronti e, va da sé, di libertà.

Con la ragione smonto le trappole che la guerra non fa che tenderci e dentro le quali immancabilmente cadiamo, un po' come se non vedessimo l'ora di finirci dentro. È una trappola pensare che un'impalcatura giuridica possa disciplinare lo scatenamento che ci prende quando, ormai e sapientemente esortati, ci abbandoniamo nelle braccia della violenza. È troppo tardi.

È una trappola quella in cui cadiamo quando pensiamo che esista un modo di fare la guerra che risparmi le donne e i bambini, i vecchi e gli infermi, i soldati feriti e i soccorritori, e che addirittura non li consideri degli obiettivi. Credetemi, non esiste.

So quale pensiero gira nella testa di alcuni di voi: la Corte penale internazionale dell'Aja ha spiccato mandati di cattura nei confronti del premier israeliano Netanyahu e del suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant per crimini di guerra e contro l'umanità commessi nella Striscia di Gaza.

In molti hanno salutato questa decisione come un grande passo verso la giustizia.

Mi è impossibile sottrarre la decisione della CPI al sospetto che essa non faccia che nutrire l'illusione della guerra pulita, che ne sia addirittura complice. È questa la sua funzione, in definitiva: coltivare l'illusione della guerra scevra di crimini. È più di un'illusione: è un potente sonnifero a uso e consumo della società.

Su X, Michael Young, un giornalista e analista statunitense molto conosciuto, ha scritto, commentando la decisione della CPI:

«Most people in the world can plainly see what a barbaric, inhumane war Israel is conducting in Gaza».

La sola conclusione che questo post autorizza è che esiste una guerra non “barbarica” e non “disumana”, quindi che ne esiste una civilizzata e umana.

Non esiste.

Lasciate quindi che concluda.

È caratteristica della guerra ed è anzi la sua peculiarità consentire all'essere umano di prendere la misura del Possibile (il «Maß des Möglichen» di cui scriveva Jean Améry riferendosi alla tortura esercitata dai nazisti), di essere testimone di tutto ciò che è capace di compiere e di patire stando al mondo.

Tanto vaste sono le terre del Possibile svelate dalla guerra da addirittura rendere il Bene e il Male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fragili e inutili pietre di demarcazione di confini non più esistenti. Vi ricorriamo soltanto perché presi da spaesamento, le abbracciamo perché indotti a credere che esse guidino e anzi ispirino la necessità dell'agire bellico. Sono, in realtà, categorie fuori luogo, poiché appartengono a un altro luogo: al luogo privilegiato di chi vive in pace, ma giudica la guerra e alle stanze dei bottoni di chi fa la guerra e considera fuori legge soltanto quella degli altri belligeranti, la guerra del nemico.

Se rimanessimo abbracciati alle categorie del Bene e del Male per definire e descrivere la guerra, allora ci troveremmo confrontati con una triplice impossibilità.

La prima: dovremmo accettare che qualcuno definisca la guerra un "male minore" e che così sottragga l'esperienza e la percezione che ne abbiamo alla possibilità di utilizzare una categoria quale "male assoluto". Accetteremmo, cioè, che sulla guerra si possa discutere e, così, che di essa possano essere prodotte valutazioni diverse. Paragonato al "male assoluto", il "male minore" acquisisce sempre una sua tollerabilità. Quando il medico ci chiede "Quanto fa male" abbiamo una scala dall'uno al dieci per rispondere. Dieci è un dolore (un male) intollerabile. Tutto ciò che viene prima è, per forza, tollerabile. Lo stesso vale per il male "morale" costituito dalla guerra.

La seconda: se, tuttavia, ci ostinassimo a impiegare la categoria del Male per descrivere la guerra e anzi ci ostinassimo a ricorrere alla formula del "male assoluto", resteremmo senza pensieri e senza vocabolario per descriverlo. Si tratterebbe di un Male che il pensiero e l'alfabeto non possono sopportare: non possono, in definitiva, supportarlo. Sarebbe un Male di cui esiste il vocabolo, ma non la sua definizione, né tantomeno il pensiero del suo significato. Sarebbe, quindi, un male libero di prodursi di fronte alla nostra passiva incapacità di pensarlo e di dirlo.

La terza impossibilità: se considerassimo (come consideriamo, o, meglio, come ci viene chiesto di considerare) come appartenenti alla categoria non del "male minore", bensì e addirittura del Bene alcune azioni belliche o, detto altrimenti, alcune manifestazioni della guerra, non potremmo evitare di trovarci nell'imbarazzante situazione di considerare relativo il Bene stesso. Non potremmo, cioè, evitare di cogliere la fragilità e, assai di più, l'ambiguità di tale parola e della categoria alla quale rinvia.

Queste tre impossibilità valgono allo stesso modo per le categorie giuridiche applicate alla guerra.

Oltre a tutto ciò, il ricorso al Bene, al Male, a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ci spinge a reagire, di fronte alla guerra, con gli affetti, vale a dire con le passioni. Siamo portati a schierarci naturalmente da una parte belligerante piuttosto che dall'altra e questo per tutta una serie di motivi che non sono né oggettivi né tantomeno razionali. Lo facciamo “di pancia”, vale a dire sulla scorta di non meglio definibili "simpatie".

Risulta così compromesso e inagibile l'approccio sine ira nec studio alla guerra, vale a dire senza animosità né parzialità. Tale approccio alla guerra non potrebbe che essere contro la guerra.

Vediamo bene, dunque, in quale modo il ricorso a categorie apparentemente fondamentali della nostra navigazione della realtà e della vita risultino fuorvianti di fronte alla guerra (lo sono sempre, ma questo è un altro discorso).

Sebbene di fronte alle conseguenze di un conflitto armato sia difficilissimo tenere a bada le nostre passioni, è soltanto lo sforzo volto a controllarle che ci condurrà all'identificazione delle sue cause, quelle superficiali e quelle profonde. Da questa identificazione, ne sono convinto, dipende il successo che otterrà lo sforzo di chi, oltre che fermare questa o quella guerra, vuole impedire tutte le guerre.

Ai limiti del pensabile e oltre, dove ho inteso condurvi, c'è questo da scoprire, da vedere e, in definitiva da cogliere: la misura del Possibile.

Capiamo, cogliendola, che sarebbe molto più utile e onesto ammettere che la guerra è lo spazio dentro il quale l'essere umano è libero di fare tutto, perché è chiamato a farlo.

Qualora ritenessimo insopportabili le scene che tale scatenata libertà produce, resteremmo con una sola alternativa in mano: evitare la guerra. Esiliarla dai nostri pensieri fino a renderla impensabile.

Conoscerebbe così la sua definitiva soluzione persino il paradosso di Seneca.

C'è speranza?

Se chiedete a me vi risponderò che sì, c'è speranza.

C'è, soprattutto, molto lavoro da fare.

gianluca grossi

- fine -

Gianluca Grossi è l'autore del libro Sulla guerra. Perché non riusciamo a non farla, Redea 2023.